AG CGIL: Scacchi. Le radici del sindacato sono nella contrapposizione tra capitale e lavoro.

Appunti dell’intervento di Luca Scacchi all’Assemblea generale CGIL, 24 luglio 2025, Roma.

Io la dico così: ho l’impressione che nella discussione di questi giorni ci siamo dimenticati qualcosa. Tra lo sguardo lungo sul programma fondamentale (i grandi cambiamenti a livello geopolitico, l’intelligenza artificiale, le nuove composizioni del lavoro) e l’occhio attento alla nostra strada (l’implementazione concreta delle delibere organizzative, il percorso e i tempi che ci portano al congresso), perdiamo la focalizzazione su quella che dovrebbe esser oggi la nostra ansia principale.

Io credo infatti che oggi la nostra preoccupazione quotidiana dovrebbe essere la mobilitazione sociale che noi sapremo mettere in campo nei prossimi mesi. Al centro della nostra attenzione e programmazione dovrebbe cioè esserci il prossimo autunno. Nel confronto di questi giorni questo tema è stato, come dire, rubricato nel capitolo della cosiddetta continuità. Soprattutto la continuità con l’iniziativa e la mobilitazione del referendum, in alcuni sguardi più ampi la continuità anche con lo sciopero generale dello scorso anno. Io credo che non sia un semplice problema di continuità, ma che di fronte a noi ci sia la necessità di una riflessione e un’azione più profonda sulla costruzione delle mobilitazioni e del conflitto sociale in questa particolare stagione.

In primo luogo, infatti, oggi abbiamo bisogno che si sviluppi una mobilitazione di massa, capace di dispiegare un’opposizione contro le politiche di questo governo che finora è mancata, sia nella continuità sia nella capacità di pervadere ampi strati sociali, oltre alcuni settori o alcuni momenti. E allora guardate, sottolineo questo elemento perché io credo che non sia scontata la capacità oggi della CGIL di saper costruire scioperi di massa e di saper andar oltre una manifestazione nazionale e uno sciopero generale più o meno occasionale, più o meno rituale, contro la legge di bilancio. Non è scontato perché le difficoltà della mobilitazione generale le abbiamo toccate con mano in questi anni, tanto negli scioperi scompaginati di novembre-dicembre delle scorse leggi di bilancio, quanto nei limiti e nei confini di alcune iniziative di categoria (la debolezza delle iniziative dei pubblici nonostante i contratti separati, le adesioni faticose nell’Istruzione e ricerca, la flebile reazione ad incidenti eclatanti sui luoghi di lavoro, i perimetri circoscritti della partecipazione alle 40 ore di sciopero metalmeccaniche).

Invece noi abbiamo bisogno di segnare un autunno di scontento e di conflitto. Perché la contrapposizione internazionale e la competizione mondiale preme sul lavoro, morde i salari e degrada il salario sociale; perché questo governo reazionario si sta facendo interprete di politiche recessive e repressive che rischiano di produrre ulteriori arretramenti nei rapporti sociali di questo paese. Questa dinamica e queste politiche possono e devono essere sconfitte solo in una dinamica di massa. Infatti, se c’è una cosa che ci dicono i sondaggi e i risultati elettorali anche di questi mesi è che il consenso per Fratelli d’Italia e per il blocco reazionario nella nostra base sociale, nelle classi popolari e nel lavoro non si è ancora sostanzialmente eroso. Questo consenso non si smantella semplicemente in una campagna elettorale, neanche nella nostra campagna referendaria, ma si deve tessere pazientemente nell’attivazione e nella mobilitazione sui bisogni, gli interessi e le rivendicazioni quotidiane che vivono proprio le classi subalterne e il lavoro in questo paese. Allora, questo governo non lo si sconfigge alle elezioni politiche fra due anni e forse più, come mi è parso di sentire anche in alcuni interventi di questi giorni. La sua sconfitta si costruisce nella capacità di sviluppare nei prossimi mesi una mobilitazione di massa, oltre le urne della primavera scorsa e capace di allargarsi, diffondersi, radicarsi rispetto agli scorsi anni.

Salario e precarietà. Nelle ansie che pervadono il confronto di questi giorni, io credo che ci manchi un ragionamento sulle due questioni oggi centrali, che sono quella del salario o quella della precarietà. Come noi riusciamo a far vivere nei prossimi mesi queste rivendicazioni, che erano sottesi allo sciopero generale dell’anno scorso e in fondo anche alla campagna referendaria? Come sviluppiamo non solo un’agenda sociale ma una mobilitazione che metta al centro la compressione degli stipendi, la stratificazione salariale, l’insicurezza e l’instabilità che sta frammentando la classe lavoratrice? Come mettiamo in campo un’azione che sia in grado di ridurre su questi elementi le divergenze tra le diverse stratificazioni del lavoro e anche le differenze tra le nostre pratiche contrattuali?

Io credo allora che la nostra programmazione debba andar ben oltre un corteo nazionale (magari che non si sovrapponga con il profilo contro il genocidio e il riarmo che sta assumendo la Perugia-Assisi di quest’anno, come ha sottolineato Eliana nel suo intervento). La domanda che dovremmo porci oggi è cioè come riuscire a costruire relazioni, rapporti, convergenze tra le 40 e oltre ore di sciopero dei metalmeccanici, la mobilitazione che ancora non siamo riusciti a far partire in diversi settori pubblici sui contratti separati, l’iniziativa di istruzione e ricerca, quella della telecomunicazioni e quella degli altri settori in cui pesa sempre di più povertà, sfruttamento e precarizzazione. Come costruiamo una rivendicazione generale sul salario e contro la precarietà, superando i diversi punti di caduta che stanno praticando le singole categorie. Con quali tempi, con quali modi, con quali percorsi di confronto e coinvolgimento delle più ampie soggettività sociali riusciamo a sviluppare uno sciopero generale che non sia semplicemente il solito appuntamento rituale l’ultima settimana di novembre o la prima di dicembre. Su questo dovremmo sforzare la nostra elaborazione, verificare le diverse esperienze, capire come trovare una sintesi tra i diversi punti di vista, condizioni e percorsi categoriali e territoriali. Su questo, invece, mi sembra che oggi taciamo.

Le nostre politiche contrattuali. Sottolineo questa esigenza perché, guardate, tra una discussione tra i perimetri contrattuali (cioè, la metto così, sulle relazioni tra le nostre categorie e i confini della loro azione) e quella sul mondo che è cambiato dal 1996 ad oggi (la conferenza di programma), io non capisco dove collochiamo il confronto e dove riusciamo a fare un passo avanti nel coordinamento delle politiche rivendicative e contrattuali della Cgil. Cioè non vorrei che arriviamo a fare quella discussione nel Congresso, fra due anni e oltre, senza riuscire a fare oggi passi avanti rispetto alla situazione di pesante divisione e divergenza che viviamo oggi.

L’albero e le sue radici. Io credo che qui si ponga il tema evocato ieri da Walter Schiavella, con la sua immagine dell’albero. A me quella metafora è piaciuta, perché credo colga un aspetto della nostra realtà presente. Le nostre radici, la metto così, io credo siano proprio la nostra capacità di rappresentare l’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici (il lavoro, le classi lavoratrici nel loro insieme) nella quotidiana contrapposizione con il capitale, in primo luogo nei rapporti di produzione e quindi dentro i rapporti sociali nel loro insieme. Un’ po’ quello che Augustin Breda [RSU Electrolux] descriveva ieri quando ci raccontava l’azione e le pratiche sindacali quotidiane nel suo stabilimento e nella sua azienda. Il problema, cioè, è come irrobustiamo oggi quelle radici che tendono a indebolirsi e soprattutto come riusciamo a farle convergere verso l’albero, quando oggi si stanno autonomizzando e sviluppando in direzioni diverse.

Io però non credo che il problema principale oggi sia la riconquista di una capacità negoziale della CGIL, diversamente da Walter. Io piuttosto penso sia la ricostruzione di una capacità di sviluppare conflitto. Il conflitto, infatti, non è che accompagna la capacità negoziale solo quando proprio proprio è indispensabile e non se ne può fare a meno.  Soprattutto, io non credo che a noi sia mancata una capacità di mediazione e di unità sindacale, come ha sottolineato Walter. Non è che queste sono venute meno perché abbiamo fatto i referendum (ha ragione Giorgio Airaudo quando descrive come improbabile l’ucronia di una riconquista dell’unità sindacale in un mondo alternativo in cui la CGIL avesse deciso di non praticare quella scelta) o perché Maurizio Landini avrebbe un’eccessiva cultura Fiommina e fosse troppo frikkettone. Non mi sembra stiano così le cose. In realtà, la CGIL aveva assunto proprio quell’asse e quella prassi come proprio riferimento. Pensiamo al contratto metalmeccanico del 2016 e al patto di fabbrica del 2017. Prendiamo in mano i documenti congressuali del 2018, proprio centrati sull’asse dell’unità sindacale organica e della mediazione. Quell’asse è tramontato perché è stato bloccato, smontato e sconfitto dai rapporti di forza, dalla dinamica delle cose, dalla realtà. Certo, ci sono le scelte soggettive della Cisl. Ci sono gli indirizzi e le politiche di un governo reazionario. Ci sono le politiche di disintermediazione che, come ha sottolineato qualche segretario regionale, non sono praticate solo dalla Destra, ma vivono anche nelle amministrazioni governate dal centrosinistra o nel campo largo. Ci sono però anche le strategie di accumulazione e le politiche padronali, che in questi anni hanno voluto moltiplicare i contratti nazionali, ridurli e scompaginarli, aggredendo ogni argine concertativo sotto la pressione della crisi, della competizione e alla fine anche della contrapposizione internazionale. La concertazione, la politica dei redditi e i patti dei produttori non sono falliti perché la CGIL ha scelto di non praticarli, in un eccesso di radicalizzazione e movimentismo, ma perché il capitale ha sospinto in questi anni politiche di aggressione al salario globale (diretto, indiretto e sociale), attraverso politiche corporative o di disintermediazione (dal modello Marchionne alla flessibilizzazione dei salari con aumenti focalizzati solo sul secondo livello).

Certo, pratiche di accordi tra produttori e politiche concertative sopravvivono a livello settoriale. In alcune categorie, in alcuni comparti, in alcune aziende ci sono margini, strategie di accumulazione e dinamiche economiche che permettono queste relazioni e queste pratiche sindacali. Però, proprio perché si danno a livello settoriale e non a livello generale, proprio questa dinamica accompagna la stratificazione del lavoro, quella divaricazione delle radici che rischia di uccidere l’albero del movimento del lavoro, la funzione di un sindacato generale, l’opzione confederale della Cgil. Perché c’è un’altra cosa che sottolineo. La relazione e diversi interventi hanno rimarcato il profilo corporativo della CISL, la sua vera e propria involuzione che marca non solo una discontinuità con la sua storia, ma una frattura significativa nell’attuale sindacalismo confederale. Diversi segretari regionali ci hanno segnalato qui come questo avvenga anche nei territori. Però, come ricordato in qualche intervento, questo non si registra nelle categorie. Non credo, come mi pare di aver compreso dalle parole di Stefano Malorgio, che questo avvenga solo perché a livello categoriale ci sarebbe un rapporto più semplice con lavoratori e lavoratrici, una relazione più diretta nella rappresentanza. Io penso che qui ci sia una contraddizione. La domanda è se questa sia una contraddizione, o una schizofrenia, solo della CISL o anche nostra. Certo, in alcune categorie può essere soprattutto della CISL (penso ad esempio all’imprevedibile tenuta dell’unità sindacale nelle quaranta ore di sciopero metalmeccaniche e anche nella contestazione pratica del decreto sicurezza, con un blocco della tangenziale bolognese guidato dal segretario generale della FIM). Certo, in altre categorie si agiscono accordi separati, con una diretta contrapposizione anche nella dinamica contrattuale tra il modello corporativo e politicamente complice della CISL e quello fondato sull’interesse generale del lavoro della CGIL. Però forse alcune contraddizioni sono anche nostre, nel nostro accompagnamento di alcune divergenze contrattuali che emerge con evidenza in alcuni settori o ancora negli accordi dove anche noi abbiamo accettato deroghe sul precariato e salari sotto il minimo costituzionale (che poi hanno visto persino l’intervento della magistratura).

Allora io credo che oggi una priorità sia quella di ricostruire una pratica contrattuale generale, segnando un cambio di passo capace di tornare a far convergere lavoratori e lavoratrici. Questo tema mi è parso ripreso anche da alcune parole di Valentina Capelletti, se non le ho comprese male, quando ha sottolineato l’importanza di ricostruire dinamiche convergenti e, se si aprissero nuovi spazi per ridefinire nuove relazioni sindacali con Confindustria, di definire nuove regole che dovrebbero guardare più alle condizioni di Multiservizi che a quelle dei Chimici. Cioè, io la traduco così, dobbiamo iniziare a far convergere le condizioni di lavoro e i salari, facendo salire i livelli bassi e guardando in particolare ai settori più fragili del lavoro.

Non mi convince, però, che tutto questo noi lo facciamo sulla strada, come mi sembra emergere nella nostra discussione e nelle proposte della segreteria. Non mi convince, cioè, che siano le Camere del lavoro il luogo principale della ricomposizione delle filiere disperse e dei differenti strati del lavoro. Non mi convince non solo sul piano astratto della teoria, ma anche sul piano concreto delle pratiche. Ho già parlato in altri interventi della mobilitazione durante quest’anno del precariato e delle Assemblee precarie universitarie. In università il lavoro è diviso tra un settore inquadrato nello stato giuridico pubblico (rapporti di lavoro regolati da legge e regolamenti); un settore inquadrato nel contratto nazionale pubblico (tecnici amministrativi bibliotecari e lettori/CEL); un settore disperso su appalti e servizi (frammentato su CCNL vari ed eventuali); una terra di mezzo di precari con rapporti di lavoro individuali, senza diritti e rappresentanza. Ci sono quasi 60.000 docenti di ruolo, oltre 50.000 TAB e lettori/CEL, oltre 40.000 precari di didattica e ricerca, diverse migliaia di appalti e servizi. Un cielo diviso. Questa divisione è prodotta da normative e politiche che spingono gli atenei ad agire e moltiplicare questa divisione, agendo su finanziamenti e vincoli di bilancio.

Allora, mi domando, è la Camera del lavoro e l’Agenda sociale il luogo dove noi rimettiamo insieme le filiera diffuse e le frammentazioni del lavoro? Io vedo un rischio in questa prospettiva. Anche quando si riesca a portare in quello spazio le diverse soggettività e le diverse rappresentanze di questo lavoro diviso (cosa alquanto complessa e faticosa), proprio l’interpretazione che stiamo dando a questa soluzione organizzativa rischia di portare ad un’azione sociale di agitazione, rivendicazione e contrattazione che si focalizza a livello territoriale, in molti casi esterna ai rapporti strutturali che segnano uno specifico settore. Nel caso specifico dell’università, ad esempio, vorrebbe dire costruire una mobilitazione ed un’azione verso i Rettori e le governance di ateneo, ma anche con il cosiddetto Territorio (Comuni, Regioni, sistema economico e sociale di riferimento). Certo, tutto questo potrebbe innescare percorsi interessanti di riattivazione sociale, magari registrare anche conquiste nel salario accessorio, nelle risorse per implementare figure più garantite o nella conquista di salario sociale (trasporti, mense o alloggi agevolati). Mi domando però se questa azione non finisca per eludere il contrasto a quelle politiche nazionali di frammentazione del lavoro che hanno prodotto e che formano questa divisione, se non finisca per accompagnare le divergenze del lavoro, se non arrivi a moltiplicare le linee di frattura aggiungendo a quelle verticali del settore nuove amplificazioni tra territori, in una realtà dove già oggi è evidente la differenza di risorse tra atenei, dove già oggi il personale tecnico amministrativo e bibliotecario di alcuni atenei torinesi o milanesi ha un salario complessivo maggiore del 50% rispetto altri, come Catanzaro o Foggia, ma anche come l’Insubria (Varese) o Udine nel profondo Nord.  

E allora mi piacerebbe, come dire, che noi focalizzassimo la discussione su questo, meno che definiamo oggi i tempi del Congresso, magari programmandone la conclusione tra due anni e subordinandolo a variabili ad oggi imprevedibili, come le elezioni politiche anticipate (potrebbero alla fine esser regolari, in autunno 2027; essere anticipate alla primavera 2027, ma magari anche prima, nel 2026 per evitare una legge di bilancio poco elettorale segnata da una congiuntura economica pesante; potrebbero esser seguite a stretto giro di posta da un referendum costituzionale sul premierato, in una campagna elettorale prolungata che occupa tutto il 2027). In ogni caso, mi sembra poco comprensibile parlarne ora, a due stagioni politiche di distanza. Avremmo tempo e modo per farlo, nel quadro delle regole e del rispetto dello Statuto (come già è stato detto e anche sottolineato dalla relazione introduttiva).

Dico solo un’ultima cosa: se proprio dobbiamo parlare di congresso, più che sui tempi mi piacerebbe discutere su come lo facciamo. Quando nel 1989 ci furono le due conferenze di organizzazione e di programma, quando Trentin avviò un percorso di superamento della radice politica rifondativa della Cgil (il Patto di Roma del 1944, l’accordo tra diverse formazioni politiche e la regolazione del confronto per componenti di partito), la CGIL si rifondò nuovamente su base programmatica. Questa seconda rifondazione avvenne non solo delineando un Programma fondamentale, ma anche definendo un confronto aperto tra impianti, interpretazioni o declinazioni diverse di questa base programmatica. Fu progressivamente definita, cioè, una democrazia di organizzazione regolata da pluralismi, tra cui quelli congressuali (documenti alternativi), di area e di maggioranza/opposizione (Titolo IV della prima delibera statutaria). Negli ultimi anni, noi abbiamo visto invece praticare e teorizzare una democrazia delle strutture, cioè da una parte l’idea che il pluralismo cardine di cui tener conto nella discussione sia soprattutto (se non solo) quello delle diverse strutture categoriali e territoriali (da cui, anche la centralità del confronto negli esecutivi); dall’altro la conseguenza dello sviluppo di pratiche e modelli sindacali sempre più indipendenti, mi viene da dire impermeabili alla discussione e alle scelte confederali. In questa democrazia delle strutture, quindi, si tende a sviluppare un sindacato delle libertà (concedetemi il termine), dove ogni struttura interpreta più o meno liberamente linea e strategia, in un’unanimità congressuale e confederale più formale che sostanziale, perché tanto le parole non incidono sulle cose. Allora, io più che i tempi vorrei discutere di come costruire un sindacato generale che sia casa, più di una molteplicità di modelli e pratiche sindacali, di una pluralità di prospettive, sensibilità e declinazioni programmatiche , come sempre tendono a svilupparsi nei sindacati generali di massa.

Luca Scacchi