Intervento di Aurelio Macciò all’Assemblea generale dello SPI-CGIL, Roma 3 luglio 2025
Nell’iniziare questo mio contributo, voglio intanto ricordare che la nostra Area sindacale, “Le Radici del Sindacato”, nell’ambito del nostro dibattito interno che ci fu lo scorso anno sulla proposta di impegnare la CGIL sulla strategia referendaria, si espresse criticamente e i/le compagn* della nostra Area votarono esplicitamente contro in ambedue le riunioni dell’Assemblea Generale confederale CGIL in cui si decise poi al riguardo.
Nel ricordare questo, non voglio però utilizzare l’alibi del “Ve lo avevamo detto”. Un po’ perché il “Ve lo avevamo detto” in politica conta davvero ben poco, ma poi soprattutto perché, nonostante la nostra posizione critica, acquisito che i referendum comunque erano in campo, ci siamo anche noi impegnat* come tutt* in questa iniziativa e nel cercare di raggiungere il maggior numero di votanti e il maggior numero di SÌ, non tanto per qualche senso di disciplina, ma perché, pur considerando altamente improbabile il raggiungimento dell’obiettivo, sapevamo che anche la dimensione del risultato avrebbe pesato su tutta la CGIL e su tutto il movimento operaio e sindacale.
E adesso anche noi intendiamo partecipare quindi, come tutta la CGIL, a discutere sul cosa fare ora.
Noi abbiamo ora un dato di realtà, anzi due dati di realtà, che vanno acquisiti entrambi. Intanto occorre riconoscere il dato della sconfitta. Se non partiamo dal riconoscere questo, ci racconteremmo solo delle balle. Vedo invece che circolano nel nostro dibattito degli eufemismi edulcorati, tipo “non vittoria” o simili.
Riconoscere il dato della sconfitta non significa allora non cogliere anche aspetti positivi che ci sono stati e che sono da valorizzare e da non disperdere: penso ad esempio alla tanta militanza che si è prodotta e di cui già molt* compagn* hanno parlato – il SPI è stato necessariamente costretto a uscire dalle proprie sedi e dai propri uffici –, oppure al rapporto con tante associazioni, anche in particolare con quelle impegnate nel referendum sulla cittadinanza.
Il dato è che restiamo distantissimi dal raggiungimento del quorum, restando al di sotto del 30% nell’affluenza al voto. Al di sotto, il 29,89% per la precisione, perché va considerato nel conteggio, perché queste solo le regole, anche il voto all’estero. E se consideriamo i NO espressi, le schede bianche e le schede nulle, i SÌ nei 4 referendum sui temi del lavoro rappresentano circa il 25% dell’intero elettorato, 1 elettore su 4.
Per quanto riguarda il dato della partecipazione, Maurizio Landini sottolinea il dato della crisi della democrazia nel nostro Paese. Ora, io credo che la crisi della democrazia liberale non sia un elemento solo italiano ma sia da tempo un dato che verifichiamo pressoché in tutto l’Occidente. Piuttosto, il dato della partecipazione indica e certifica lo stato dei rapporti di forza tra le classi nella società italiana e la stessa crisi della democrazia va letta all’interno di questo stato. Noi abbiamo invece il dato della partecipazione al voto per le elezioni delle RSU, quindi all’interno della classe lavoratrice, sia nei settori pubblici che in quelli privati, che si attesta tra il 75 e l’80%.
Il secondo dato di realtà è che quasi il 35% di chi si è espresso nel quinto referendum ha votato NO. E questo è un dato che ancor più ci deve riguardare. Nella mia città ci sono sezioni elettorali di quartieri prevalentemente popolari in cui il NO va oltre il 40%, in alcune raggiunge addirittura il 50%. E questo avviene dove è maggiore la presenza di cittadini stranieri o di origine straniera. Riguarda quindi un problema di non poco conto che abbiamo all’interno della nostra classe e su cui occorre molto riflettere per assumere le necessarie iniziative.
E adesso, che fare? Nella recente riunione dell’Assemblea Generale nazionale confederale CGIL (17 e 18 giugno) la discussione è stata articolata e ancora interlocutoria, mentre si annuncia una nuova riunione per i prossimi 23 e 24 luglio, che dovrebbe assumere delle decisioni più precise. Si sente parlare della convocazione di una Conferenza di Programma o di una Conferenza di Organizzazione. Ma io credo che noi dovremmo invece uscire fuori da noi, parlare all’esterno, definire i caratteri di una necessaria mobilitazione.
In questo senso, io credo che abbiamo due priorità ineludibili: salario e guerra/riarmo.
Sul salario. È inutile che vi ricordi qui i diversi dati OCSE, ILO, ISTAT, tutti concordi nell’indicare che il nostro è l’unico Paese in Europa dove i salari reali sono diminuiti. E questo a fronte invece del continuo aumento dei profitti e delle rendite. È quindi necessaria l’articolazione di una vertenza generale sul salario. E quando dico articolazione penso ovviamente anche alle pensioni, che sono salario differito; ai/alle lavoratori/trici che pur lavorando sono al di sotto della soglia di povertà, spesso perché si tratta di lavoratori/trici in condizione di part time involontario (un tempo, al riguardo, esistevano dei limiti nel numero di ore possibili nel part time, oggi siamo arrivati a una completa liberalizzazione); alla ripresa di una battaglia sul salario minimo, che da quando si parla della necessità di fissarlo a 9 Euro nel frattempo, per l’inflazione che c’è stata, si dovrebbe rideterminare in almeno 10 Euro, una battaglia la cui bandiera sembra che abbiamo lasciato ad altri.
Sulla guerra e il riarmo. Anche qui, è inutile che vi ricordi Gaza, la Cisgiordania, l’Ucraina, ecc. Ma proprio recentemente il vertice dei 32 Paesi NATO, riunito a L’Aja, ha definito l’obiettivo, per ogni Paese membro, di arrivare a una spesa militare di almeno il 5% del proprio PIL.
Si tratta di un obiettivo pazzesco, enorme. Per darvi la dimensione di cosa vuol dire, secondo i recenti dati del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute), l’autorevole Istituto di Stoccolma, la spesa militare mondiale complessiva nel 2024 è stata pari al 2,5% del PIL mondiale. I Paesi NATO si danno quindi l’obiettivo di una spesa militare pari al doppio di quella media mondiale (e beninteso, nella media ci sono anche diversi Paesi che sono impegnati in scenari di guerra). La Russia, che pure è un Paese impegnato in operazioni belliche, ha oggi una spesa militare pari al 7,1% del proprio PIL. Gli USA, che hanno di gran lunga l’esercito più potente del mondo e che da soli rappresentano il 37% della spesa militare mondiale, hanno una spesa militare pari al 3,4% del proprio PIL: secondo le decisioni assunte nel vertice NATO, dovrebbero aumentarla del 50%! L’Italia ha oggi una spesa militare pari all’1,6% del proprio PIL: dovrebbe quindi triplicarla! Il tutto, giocoforza, a detrimento della spesa sociale, della sanità pubblica, dell’istruzione pubblica, di ambiente, lavoro, salari, pensioni.
Occorre pertanto una iniziativa straordinaria, che ci compete proprio sul piano della lotta sindacale. Maurizio Landini, qualche mese fa, indicò una cosa notevole – non che non sia d’accordo, ma sicuramente notevole –, dichiarò che occorrerebbe una rivolta sociale. Io mi limito qui a proporre un obiettivo più modesto ma anche più concreto: su guerra e riarmo occorre uno sciopero generale europeo. So bene che non è semplice, che ci sono non pochi sindacati in Europa e nella CES che sono su posizioni favorevoli al riarmo, ma noi dobbiamo porci questo obiettivo, dobbiamo dire che intendiamo impegnarci su questo terreno indicando la prospettiva dello sciopero generale europeo.
Aurelio Macciò