I limiti del referendum, la ripresa delle lotte

Intervento di Francesco Locantore all’AG Flc 11 giugno 2025

I referendum su lavoro e cittadinanza, come era ampiamente prevedibile, non hanno raggiunto il quorum della metà più uno degli elettori. E’ una ulteriore sconfitta sia per la classe lavoratrice e per la civiltà, una ulteriore conferma del clima politico degenerato, in cui i padroni fanno il bello e il cattivo tempo, anche in spregio dei principi fondamentali di giustizia, democrazia e solidarietà umana.

Hanno votato solo il 30% degli aventi diritto, circa 15 milioni di persone, oltre 10 milioni in meno di quelle che sarebbero state necessarie. Di questi circa 12 milioni hanno votato sì ai quattro quesiti della Cgil (tra l’87% e l’89%), solo 9 milioni al quesito sulla cittadinanza. Un numero molto basso anche in considerazione del fatto che i lavoratori e le lavoratrici dipendenti sono circa 19 milioni, senza contare i/le pensionati/e, disoccupati/e e chi lavora a nero. Un referendum che non ha mobilitato neanche la totalità della classe lavoratrice, ancora ben lontana dal percepire che difendere i diritti dei settori più deboli di essa sono fondamentali per invertire i rapporti di forza sociali. Particolarmente grave il segnale che emerge dal risultato del quesito sulla cittadinanza, che ottiene solo il 65% dei sì e che probabilmente sarebbe stato sconfitto anche nel caso in cui il quorum fosse stato raggiunto grazie ad una maggiore affluenza al voto di elettori presumibilmente orientati a destra.

Oggettivamente la destra al governo esce rafforzata da questo esito. Hanno scommesso sull’astensione per far fallire i referendum, utilizzando un ventre molle popolare ampiamente spoliticizzato che ormai non vota più, tanto che anche alle ultime elezioni europee del 2024 avevano votato meno della metà degli aventi diritto. Saranno da analizzare approfonditamente i flussi elettorali, tuttavia è probabile che coloro che non votano per le elezioni politiche non siano andati a votare neanche quando c’era da decidere direttamente nel merito di alcune norme di legge. Ancora una volta non ci si può illudere delle potenzialità “sovversive” di chi si astiene.

A poco vale la consolazione dei partiti del cosiddetto campo largo, soddisfatti del fatto che il numero dei sì sarebbe superiore a quello ottenuto alle elezioni europee dalle forze di maggioranza. Se è vero che Fratelli d’Italia, Forza Italia e Lega avevano ottenuto “solo” 11 milioni di voti nel 2024, oggi queste forze si intestano un’egemonia sulla grande maggioranza degli elettori che a votare non ci è andata. In questo senso ha fatto male il centrosinistra a politicizzare il referendum, presentandolo come una consultazione sull’operato del governo.

La medaglia del peggiore tra le forze del campo largo va a quel Movimento 5 Stelle, che non ha dato indicazione di voto sul referendum sulla cittadinanza, accarezzando un senso comune razzista e di destra, come fece già nel 2018 quando accettò di governare con la Lega. La natura interclassista (ma con una direzione piccolo borghese) di questa formazione politica non si è smentita neanche in questo frangente. Anche il PD non era affatto compatto nella sua indicazione di voto, con una parte del gruppo dirigente rimasto ancorato all’impostazione renziana, e con una parte del suo elettorato che, come emerge dalle prime analisi dei flussi, pare abbia votato no al quesito sulla cittadinanza.

Dopo la conversione in legge del decreto sicurezza e il risultato dei referendum, il governo postfascista italiano è sempre più pericoloso. Con il decreto sicurezza, un provvedimento superrepressivo e antidemocratico, si minacciano le lotte che possiamo mettere in campo in futuro, instaurando un clima interno coerente con i venti di guerra. La prossima partita fondamentale è quella militarista, dei cospicui investimenti sul riarmo proposti dalla commissione europea e accolti con entusiasmo dalla destra nostrana così come dalle destre che si stanno facendo strada in Europa.

Al di là del risultato è stato importante riaprire il dibattito sul lavoro e sulla cittadinanza e discuterne nei mercati, nei quartieri, sui posti di lavoro. Questa battaglia tuttavia ha dimostrato ancora una volta, come fu nel 1984 mutatis mutandis sulla scala mobile, che il referendum non può essere considerato lo strumento principale a cui affidare le conquiste – o anche la semplice difesa dei diritti – della classe lavoratrice. Sarebbe facile citare il Marx della Prima Internazionale, secondo cui “l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi”, per ricordare che non si può rimettere ad un referendum in cui ha diritto di voto anche la borghesia il destino di chi vive del proprio lavoro. Se poi pensiamo al referendum sulla cittadinanza, su cui le persone direttamente interessate non avevano neanche il diritto di voto, l’errore è ancora più evidente.

E’ vero che grazie ai referendum si sono vinte importanti battaglie di civiltà (il divorzio, l’aborto, la caccia, il nucleare, l’acqua pubblica), ma intanto si trattava per l’appunto di questioni che riguardano tutta la società e su cui i settori più avanzati della classe lavoratrice e dei movimenti sociali sono riusciti a costruire egemonia, grazie anche alla propria forza soggettiva, alla capacità di organizzarsi e vincere innanzi tutto sui posti di lavoro, in famiglia e nella società in generale. Il senso comune su quei temi era più avanzato del legislatore. Oggi su lavoro e cittadinanza non è evidentemente così.

Soprattutto in questa fase storica, in cui l’egemonia del capitale e della destra politica è così forte sulla società in Italia come nel resto del mondo, affidare i destini di chi lavora e dei migranti al voto referendario è stata una decisione avventurista, che ha esposto la classe ad una sconfitta del tutto prevedibile, rischiando di indebolire anche le altre battaglie che sono in campo. Forse quando Landini ha pensato di lanciare i referendum della Cgil si è affidato al possibile traino di un sesto quesito, che non è stato ammesso al voto dalla Corte Costituzionale, quello sull’autonomia differenziata. Probabilmente neanche quel quesito avrebbe permesso il raggiungimento del quorum, come ha testimoniato la difficoltà di mobilitare la società in questi anni contro questo ulteriore progetto eversivo delle destre, condiviso anche da settori di centrosinistra nelle regioni del Nord. Questo argomento non può comunque essere una giustificazione, a fronte di una direzione della Cgil che, anziché porsi in modo combattivo e radicale nel conflitto sociale, ha spostato la battaglia sul terreno referendario, come testimoniato dallo slogan, per noi profondamente sbagliato: “Il voto è la nostra rivolta!”. Bisogna fare i conti con una massa di persone, nelle periferie e tra i la stessa classe lavoratrice, che si è spoliticizzata e desindacalizzata in conseguenza della sconfitta storica del movimento operaio, dei continui arretramenti sul piano salariale e dei diritti, dei tradimenti di chi avrebbe dovuto rappresentarlo e le disillusioni sulle esperienze riformiste, della mancanza di movimenti sociali significativi, in grado di invertire i rapporti di forza tra le classi.

Archiviato il referendum, è ora di tornare a pensare a come difendersi dal governo delle destre e dallo strapotere padronale e riconquistare diritti e salari.

E’ dai luoghi di lavoro e dalle rappresentanze sindacali che bisogna ripartire per costruire un modo diverso di fare sindacato, conflittuale e solidale. L’emergenza salariale va affrontata decisamente, lottando per ottenere rinnovi contrattuali che restituiscano dignità al lavoro, in particolare nei settori pubblici e tra i metalmeccanici, i cui contratti collettivi sono scaduti e non sono stati ancora rinnovati. Se i metalmeccanici si stanno mobilitando con diversi scioperi (circa 40 ore ad oggi), troppo poco si sta facendo nei settori pubblici, dando per scontato che non ci sono le risorse per garantire il recupero dell’inflazione nel triennio 2022-2024 e rinunciando nei fatti ad attivare una mobilitazione decisa e continuativa per ottenere che il governo stanzi queste risorse.

Per ottenere queste conquiste bisogna tornare a scioperare sul serio, come ci hanno insegnato le lotte che hanno portato all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 o come più recentemente abbiamo visto fare in Francia contro la riforma delle pensioni. Lo strumento dello sciopero deve tornare ad essere centrale per la ricostruzione di un nuovo movimento operaio. La costruzione dello sciopero generale serve a cementare la solidarietà nella lotta tra i vari settori della classe lavoratrice, a restituire fiducia tra le lavoratrici e i lavoratori nella capacità di autorganizzarsi e di vincere con la lotta. Solo una classe lavoratrice cosciente della propria forza può sperare di costruire un blocco sociale intorno a sé e l’egemonia per contrastare la barbarie capitalista e autoritaria.

L’effetto peggiore che questa sconfitta referendaria potrebbe determinare sarebbe la demoralizzazione degli attivisti politici, sociali e sindacali, che si sono generosamente impegnati in questa campagna. Eppure negli ultimi mesi assistiamo ad una ripresa di mobilitazioni sociali importanti, che vanno continuate ed approfondite nelle prossime settimane. I nove milioni di voti di chi ha votato sì ai cinque quesiti sono certo insufficienti per vincere sul terreno referendario, ma se una parte consistente di queste persone si mobilitassero scendendo in piazza o partecipando agli scioperi nelle prossime settimane, dimenticheremo presto questa sconfitta e sarebbe l’inizio di una nuova stagione politica in cui la solidarietà di classe tornerebbe ad essere protagonista.

Il 21 giugno ci sarà a Roma la manifestazione nazionale nell’ambito della campagna Stop Rearm EU, che prevede mobilitazioni in tutta l’Europa in occasione del vertice Nato che si terrà a L’Aja, per protestare contro il piano di riarmo presentato dalla commissione europea, contro l’aumento delle spese militari, in solidarietà con la Palestina e contro l’autoritarismo. E’ importante che la Flc e la Cgil siano in piazza e organizzino la partecipazione a quella manifestazione, per costruire con i movimenti sociali una battaglia di civiltà contro la guerra e fermare il governo delle destre.

Francesco Locantore