Ricominciare da tre, senza sapere dove andare

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A proposito dell’ultimo sciopero generale, dei prossimi mesi e della discussione in CGIL

La terza volta è quella buona. La CGIL è infatti arrivata lo scorso 29 novembre al terzo sciopero generale consecutivo contro una legge di bilancio del governo Meloni (il quarto, se si considera quello del 2021 contro le politiche di Draghi). Tutti questi scioperi sono stati indetti insieme alla UIL, con un’esplicita contrapposizione della CISL.
Nel 2022 si tenne a pochi mesi dalle elezioni, vinte nettamente dalla destra reazionaria (Fratelli di Italia, al 25,98%; destra con 237 seggi su 400), dopo il corteo dell’8 ottobre (ad un anno dall’assalto fascista di corso Italia) di proposta (ascoltate il lavoro) e  in tono minore (15/20mila partecipanti), senza cioè far vivere un nuovo 25aprile1994. Per settimane Landini ha insistito sull’assenza di un’opposizione pregiudiziale el’intenzione di valutare nel merito la sua azione: a marzo, per la prima volta nella storia, un’esponente di tradizione fascista avrebbe parlato in un congresso CGIL. Lo sciopero arrivò tardi (16 dicembre) e fu disarticolato, proclamato dai regionali, in diverse realtà senza la UIL (Friuli VG, Veneto, Abruzzo, Molise, Campania e Puglia). Fu un fallimento, sia nell’impatto politico, sia nella partecipazione di piazza, sia nell’adesione di lavoratori e lavoratrici.
Nel 2023, lo sciopero fu spalmato su due settimane. La stagione della valutazioni si era chiusa, il governo aveva rapidamente esplicitato i suoi tratti, del resto già evidenti alla sua formazione: un profilo classista (i bonus ad autonomi e imprese, la cancellazione delle promesse su pensioni e spese sociali), una propensione autoritaria (premierato, autonomia differenziata, sicurezza), una pratica arrogante (dall’uso dei dossier a quello dei Frecciarossa). Nella CGIL, però, rimanevano titubanze su una prova di forza e timori di approfondire le divergenze con la CISL, in una stagione contrattuale in cui tutte le categorie registravano piattaforme comuni e spesso stavano andando alla firma (nel giro di pochi mesi, infatti, furono rinnovati unitariamente oltre il 90% dei CCNL privati, alcuni scaduti da anni). Queste titubanze e questi timori erano amplificati nella UIL, organizzazione polivalente che ha categorie e territori segnati da impostazioni corporative ed anche omogeneità alla destra (a partire da Fratelli di Italia): l’articolazione regionale dell’anno precedente non era quindi un caso. Lo sciopero 2023 fu dunque un puzzle (Adesso basta!), scomposto tra territori e con complicati intrecci di categorie: il 17 novembre fu la volta del Centro (Lazio, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo e Molise), ma a livello nazionale anche di Settori Pubblici, Trasporti (eccetto aereo), Commercio e Comunicazione (compreso le Poste); il 20 novembre fu il turno della Sicilia (eccetto i settori nazionali che avevano scioperato il 17, ovviamente, come per i territori che seguiranno); il 24 toccò al Nord (Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Triveneto), il 27 alla Sardegna, il 1° dicembre al Sud (Campania, Puglia, Calabria e Basilicata). Nelle piazze si vide forse una maggior partecipazione rispetto al vuoto precedente, ma nel complesso sia l’adesione sia le dimostrazioni furono limitate. Nel 2014, invece, si è tornati a fare uno sciopero generale.

Questa volta, infatti, si è dovuto costruirlo. Certo, lo sciopero è arrivato tardi, a fine novembre, nonostante le politiche economiche fossero già chiare nella sottoscrizione del nuovo Patto di stabilità europeo(10/12 miliardi di euro all’anno per i prossimi 7 anni), nel DEF della scorsa primavera, nel Piano strutturaledi settembre. L’indizione però è arrivata solo il 31 ottobre, lasciando poche settimane per la comunicazione e il coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici: titubanze e timori, in CGIL come UIL, non erano infatti completamente superati, anche a fronte degli esiti precedenti. L’iniziativa era comunque stata assunta sin dall’estate, nell’autunno sono state organizzate circa 18mila assemblee (la metà di quelle congressuali, ma comunque uno sforzo straordinario), ad ottobre e novembre si sono anche susseguite mobilitazioni settoriali che hanno contribuito allo sviluppo un clima di riattivazione del lavoro (lo sciopero automotive il 18 ottobre, il corteo dei pubblici il 19, lo sciopero dei chimici dell’auto il 24, la conoscenza CGIL il 31, i treni il 5 novembre in reazione al ferimento di un controllore, il trasporto pubblico locale senza fasce di garanzia l’8 novembre). La dinamica delle cose ha infatti sospinto una crescente consapevolezza delle gravità della situazione. La si è colta nella nuova politica di austerità continentale, nel collasso della locomotiva franco-tedesca per l’instabilità di entrambi i paesi, nell’incertezze parlamentari di Bruxelles, nella vaporizzazione del Piano Draghi a semplice petizione di principio nonostante il suo keynesismo bastardo. La si è respirata nel conseguente blocco del turnover nei settori pubblici, con nuovi tagli a sanità, scuola, università e ricerca, trasporti e servizi sociali. La si è percepita nell’ulteriore piega autoritaria del governo (la presentazione del DdL Sicurezza, l’assemblea alla Sapienza del 16 novembre e la chiamata di un corteo nazionale per il 14 dicembre). La si è avvertita nel la nuova ondata di crisi e ristrutturazioni innescata dalla recessione tedesca (automotive, bianco, chimica di base), all’ombra dello stallo di una strategia produttiva focalizzata sulle esportazioni euroasiatiche. La si è misurata nella contrapposizione con la CISL: la divergenza non si è più limitata alla postura nei confronti del governo, ma si è iniziata a trasferire nelle prassi contrattuali (accordo separato Funzioni Centrali e Poste Italiane). Luigi Sbarra, cioè, facendo blocco con i principali sindacati autonomi (Confsal e CGS, che riunisce FGU, FPL e Nursind),  è tornato a praticare quel sindacato degli iscritti, sussidiario alla produzione e governativo che Giulio Pastore aveva impostato negli anni Cinquanta: un modello che Bonanni aveva già delineato con la stagione degli accordi separati, il Patto per l’Italia 2002, l’Accordo quadro 2009 e l’adesione al modello Marchionne, in una confederazione definitivamente irreggimentata dalla gestione Furlan (caso Scandola; commissariamento della FP CISL, estromissione di Bentivogli, per una lettura critica complessiva si veda sindacalmente.org). Nonostante la polivalenza della UIL, proprio questa deriva CISL ha impedito in questa stagione un riavvicinamento tra le due confederazioni vent’anni fa alleate nell’isolare la CGIL (lo si è visto sul salario minimo e sulla rappresentanza). Così, nel 2023, si è arrivati ad uno sciopero generale in un clima di crescente attivazione sociale.

Più per caso che per volontà, il 29 novembre ha assunto un profilo ancor più generalizzato e di movimento. CGIL e UIL, infatti, per le limitazioni delle strette normative antisciopero si sono trovati a dover proclamare la propria mobilitazione lo stesso giorno in cui due sindacati di base, CUB e SGB, l’avevano indetta già da tempo. In questo quadro, anche altre forze del sindacalismo conflittuale hanno dato indicazione di sciopero, pur con piattaforme diverse da quelle dei due sindacati confederali, nell’ottica di superare frammentazioni e sviluppare un’opposizione di massa (ADL, Confederazione Cobas, CLAP, SIAL, USI, a cui si sono aggiunti il SICobas, i Giovani Palestinesi e l’Udap in combinazione con la manifestazione per la Palestina del 30 novembre). Così, il 29 novembre ha assunto il profilo politico di una giornata di lotta generale, anche per movimenti sociali e circuiti antagonisti (nonostante l’USB tenesse per il 13 dicembre la sua data alternativa e contrapposta non solo ai confederali, ma anche agli altri sindacati di base). La piazza è stata quindi chiamata anche da forze studentesche (nonostante il 15 novembre sia stato segnato da evidenti difficoltà), precari della ricerca e università (un movimento incipiente, non ancora dispiegato ma che sta muovendo alcuni primi passi, a partire dall’occupazione del CNR, dalla costituzione di assemblee precarie a Torino, Pisa, Genova, Bologna, Milano, e Roma, dallo sviluppo di dinamiche  trasversali a Palermo e Padova). Lo sciopero del 29 è diventato, cioè, occasione di convergenza effettiva dell’opposizione politica e sociale del paese.

La giornata è riuscita. Le piazze erano piene: 50mila a Bologna e Firenze, 30mila a Napoli, oltre 10/15mila a Roma, Genova, Milano e Torino; migliaia a Padova, Venezia, Pordenone, Bergamo, Brescia, Fabriano, Pisa, Cagliari; cortei anche a Trento, Bolzano, Vicenza, Treviso, Monza, Terni, Potenza, Bari, Cosenza, Palermo e altre città. Una partecipazione che non si vedeva da tempo, anche nella sua diffusione territoriale. Per la prima volta nel corso del governo Meloni, al di là di alcuni eventi occasionali (nonunadimeno, la reazione all’omicidio Cecchettin, i pride), l’iniziativa ha assunto una dimensione di massa, ben oltre la partecipazione di attivisti politici, sindacali e sociali. La si vedeva nelle piazze, dove erano presenti non solo striscioni di categoria, ma anche di aziende, fabbriche e unità lavorative (Comuni, USL/AST, Ospedali, Università): segno che a partecipare sono stati delegati, attivisti, lavoratori e lavoratrici. Una dinamica che sicuramente non è stata travolgente (CGIL e UIL, generosamente, hanno detto 500.000 manifestanti) e non è stata straordinaria, come furono gli scioperi di settembre/ottobre 1992 (quelli dei bulloni e degli autoconvocati) o dieci anni dopo quelli per la difesa dell’art. 18, a cui sarebbe seguito il 23 marzo 2003. Non si è visto neanche la partecipazione che si ebbe contro il jobs act, con lo sciopero generale CGIL e UIL del 12 dicembre 2014. Però, in ogni caso, da allora è stato il primo sciopero generale che ha costruito una partecipazione significativa. Espressione anche di un logoramento del consenso a questo governo, che si è toccato con mano anche Umbria.

Lo sciopero si è sentito, con una difficoltà maggiore rispetto alla rappresentazione delle piazze: le adesioni hanno infatti avuto evidenti limitazioni e punti fragilità, in una stagione in cui il lavoro porta segni evidenti di disorganizzazione e le organizzazioni sindacali (anche CGIL e UIL) tendono ad un uso occasionale e di organizzazione dello sciopero, che spesso porta a partecipare solo iscritti e circuiti limitrofi. Ricostruire gli impatti di uno sciopero risulta in ogni caso complicato, per diverse ragioni. In primo luogo, non basta il numero di scioperanti: lo sciopero, infatti, non è una consultazione o un referendum, non è un atto politico di adesione ad una piattaforma. Anche quando è contro le politiche economiche, è un’azione che si propone di ostacolare o bloccare la produzione o l’erogazione di servizio, creando un danno ai datori di lavoro (collettivamente intesi, pubblici e privati). Allora uno non vale uno, perché il ruolo dei lavoratori e lavoratrici è specifico e l’adesione ad uno sciopero produce impatti diversi (un macchinista ferma un treno, un controllore no; un custode chiude tutta la scuola, un docente no; il fermo di alcuni reparti blocca tutta la catena produttiva, altri la rallentano, altri ancora possono esser aggirati). Di conseguenza, l’impatto di uno sciopero si basa su dimensioni diverse, spesso non facilmente od immediatamente misurabili. In secondo luogo, oggi si guarda spesso alla rappresentazione più che alla realtà, trasformando anche l’analisi in propaganda: apparati e organizzazioni si sono così abituati a guardare alle narrazioni socialmente costruite (come oramai si fa anche per i cortei), perdendo quindi la capacità di misurare con attenzione la propria azione. In quest’occasione, infine, c’è da considerare che diversi settori sono in cassa o a ritmi ridotti di produzione, incidendo quindi su impatti e adesioni. Detto questo, le grandi e medie imprese hanno visto adesioni significative (vicine o sopra l’80%). in particolare nelle aree storicamente più sindacalizzate (non a caso, quelle con i cortei più frequenti e partecipati): metalmeccaniche (Ducati di Bologna, Brembo di Bergamo, Acciaierie Italia di Genova, Ariston di Ancona, Marcegaglia di Mantova, Bosch di Bari, Electrolux di Pordenone, Ast di Terni); agroindustria (Heineken di Taranto, Sammontana di Firenze, Citterio di Parma, Orogel di Forlì-Cesena, Ferrarelle in Valle Camonica); chimico, gomma plastica e tessile (Isab di Siracusa, Pirelli di Settimo Torinese; Loro Piana di Vercelli), edile e legno arredo (Italcementi di Brescia; D’Agostino Costruzioni, cantiere anello ferroviario di Palermo, Poltrona Frau di Macerata), e commercio (Coop Liguria, Ikea di Genova, ecc). Adesioni importanti ci sono state anche nei trasporti (interruzione di diverse linee metropolitane e bus, cancellazione di oltre 100 voli Ita Airways). Alte adesioni, infine, anche nella logistica (corrieri indiretti di Amazon, Dhl nel Lazio e Ups Lombardia, come nell’area padana dove è presente il SiCobas: dallo SDA di Landriano all’interporto di Bologna). Il lavoro, in ogni caso, è più stratificato e complesso, lo sciopero in altri settori ha marciato con più difficoltà: non solo piccole e piccolissime imprese, turismo e commercio al dettaglio, ma anche alcune realtà al centro della diatriba sindacale, come Poste Italiane, con un’adesione sotto al 5%. Lo si vede in particolare dove si registra più puntualmente le adesioni ad uno sciopero: il pubblico impiego. Complessivamente, ha scioperato il 6,22% dei dipendenti, dall’11,85% delle Funzioni centrali (ministeri ed enti nazionali) al 2,65% della Sanità, passando per il 6,03% di Istruzione e Ricerca. Al di là di alcune avvertenze su questi dati (i lavoratori e le lavoratrici del settore sono 3,5 milioni, compresi quelli sparsi in unità piccole e piccolissime, compresi quelli che garantiscono servizi minimi essenziali). Per esempio, allo sciopero dello scorso 20 novembre di medici e infermieri, unanimemente considerato molto riuscito, risulta un’adesione del 1,66%. Un’analisi di dettaglio rivela un quadro comunque articolato. Gli scioperi sono stati tre nel giro di poche settimane (31 ottobre, 29 novembre e 13 dicembre), con alcuni comparti con risultati ripetuti: le Funzioni centrali hanno un 9% di adesioni anche il 13 dicembre, Istruzione e ricerca un 5,3% il 31 ottobre. Il 29 novembre si sono avute adesioni significative all’INPS (45%) ma anche all’Agenzia delle entrate (25%) e nelle scuole di alcuni centri (20% Firenze, 17 Trieste, 15 Bologna e Cagliari, 14 Genova, 12 Torino, 11 Roma, ma anche il 22% a Lucca e Massa, il 19 a Livorno, il 17 a Gorizia, il 16 a Ravenna e il 14 a Sassari). Un risultato anche di diversi atenei (con adesioni vicine al 20%), che ad esempio UniPi, Normale e Sant’Anna è inusualmente paragonabile anche nella docenza, di solito molto più refrattaria a queste iniziative (a dimostrazione del profilo generale e generalizzante di questo sciopero).

Il problema, ora, è cosa fare. Dopo lo sciopero. Si sapeva che non è che si bloccava la legge di bilancio. Una frase che è risuonata in qualche intervento dell’ultima Assemblea Generale CGIL. Vero. I rapporti di forza generale tra le classi non si ribaltano con uno sciopero generale di otto ore, come non è sufficiente una giornata di lotta per fermare un governo che ha una solida maggioranza parlamentare e, tutto sommato, un consenso ancora rilevante. Questa considerazione, però, segnala come questo sciopero nell’organizzazione e nella coscienza diffusa aveva soprattutto un valore politico, di resistenza, più che una prospettiva rivendicativa o vertenziale. Il problema, allora, è come passare da uno sciopero generale occasionale, per quanto riuscito, allo sviluppo di un movimento di massa contro il governo e, nel quadro della specifiche prospettive di un sindacato, come far vivere una prospettiva rivendicativa e vertenziale in grado di dare corpo e incidenza a questo eventuale movimento di massa. Questo problema è stato al centro dell’ultima discussione dell’Assemblea generale CGIL, il suo massimo organo direttivo, lo scorso 6 dicembre. La CGIL, comunque, sembra oramai aver assunto nella sua cultura organizzativa una divaricazione profonda tra quello che si dice e quello che poi effettivamente si pratica, con una leggerezza inusuale per una struttura di massa nell’assumere documenti che alla fine si rivelano puntualmente svuotati di ogni significato, da una parte perché comunque votati da chi nello stesso dibattito ha sostenuto ed argomentato posizioni diverse, dall’altro perché poi quanto stabilito in questi stessi documenti è per la maggior parte archiviato nel flusso degli eventi, senza lasciare tracce. Pensiamo, solo per dare qualche esempio, alle tante deliberazione delle ultime conferenze di organizzazione, dalla fusione di strutture territoriali secondo precisi parametri quantitativi (2015) all’Assemblea dei delegati/e di Camera del lavoro (2022). O pensiamo al salario minimo proposto sulla base del trattamento economico complessivo definito nei Contratti nazionali (XIX congresso, marzo 2023) ma poi a luglio dello stesso anno articolato nella polemica con il CNEL come paga oraria non inferiore ai 9 euro, definita per legge, precisando che nei contratti non c’è solo il trattamento economico minimo, ma quello complessivo: significa diritti (tredicesima, maternità, ferie, malattia, infortuni, welfare). Il salario minimo orario è utile, ma l’obiettivo finale è più ampio. Votare oramai negli organismi CGIL risulta quasi sempre un passaggio rituale e retorico, una punteggiatura del discorso, più che un atto che definisce posizione e azione dell’organizzazione. Al di là degli unanimismi, allora, il dato vero è che a questa domanda abbiamo visto rispondere con un’articolazione se non una frammentazione di ragionamenti diversi, in un complessivo vuoto di prospettiva dell’unica organizzazione di massa del lavoro.

I settori più moderati e responsabili dell’organizzazione (la cosiddetta destra CGIL, storicamente legata a categorie come chimici e trasporti, in cui il capitale ha grandi concentrazioni per ragioni produttive e da una parte si è sviluppata una maggior organizzazione del lavoro, una cosiddetta aristocrazia operaia, dall’altra pratiche sussidiarie o cogestionarie) hanno sottolineato come in questa fase sia fondamentale riconquistare una dimensione vertenziale dell’azione sindacale attraverso la contrattazione. Il punto per loro è come usare la forza che si è messo in campo, mantenendo il rapporto con lavoratori e lavoratrici a partire dalla nostra azione di loro rappresentanza. Nella loro ottica, allora, si deve allora rilanciare una prassi di mediazione degli interessi del capitale e del lavoro: la mobilitazione, cioè, oggi si sviluppa e concretizza se si trovano spazi di avanzamento contrattuale, risultati effettivi su salario e organizzazione del lavoro. Con le loro parole, oggi stare al tavolo con Confindustria è strategico. La prospettiva è cioè di portare a casa qualche risultato e, al fondo, isolare il governo ricostruendo un nuovo patto dei produttori (come già qualcuno delineò per un altro esecutivo reazionario, quello giallo-verde del 2019). Questi settori sottolineano quindi la necessità di rilanciare sulla Partecipazione: cioè,in competizione con la CISL, delineare oggi una nostra proposta di cogestione o codeterminazione, anche per gestire le profonde crisi industriali che abbiamo di fronte (automotive, chimica, bianco). Una proposta che valorizza anche il ruolo istituzionale delle Camere del lavoro nella gestione delle ristrutturazioni produttive o nella definizione delle politiche sociali. Si arriva quindi proprio oggi, di fronte all’attacco di Salvini e al DdL Sicurezza, a riprendere quell’impostazione regolatoria che determinò la legge 146/1990, buttando il cuore oltre l’ostacolo e proponendo lo sciopero virtuale (sic!!). Una prospettiva, mi si permetta il commento, che semplicemente non fa i conti con la realtà, riproponendo un’impostazione concertativa e cogestionaria, anche quando al governo c’è una Destra reazionaria e il padronato deve gestire una Grande Crisi, la contrapposizione internazionale tra poli mondiali e il crollo del modello tedesco.

I settori più critici e conflittuali della maggioranza (la cosiddetta sinistra sindacale, ben oltre l’omonima area di LavoroeSocietà, che oggi come ieri, nonostante tutto, fanno riferimento a metalmeccanici e conoscenza, cioè alle categorie che hanno un’impostazione maggiormente classista o politicizzata nelle loro prassi sindacali) hanno sottolineato come sul terreno sociale il conflitto sia in realtà aperto dalle controparti: al di là della questione della rappresentanza (cioè, la conferma delle regole dell’accordo quadro 2018, diversamente dalla propensione CISL ad aprire una nuova stagione di accordi separati), sul salario e sull’organizzazione del lavoro siamo di fronte ad una loro offensiva. In questo quadro, sostanzialmente in contrapposizione con quanto sottolineato da altri, viene ricordato come proprio oggi il sistema partecipativo tedesco è in crisi (vedi la vertenza Volkswagen): è il padronato che ne rompe oggi la prassi cogestionaria. Per dirla con le loro parole, lo scontro non lo cerchiamo noi, ma dobbiamo decidere se arrenderci o tenere. Questo scontro non è poi limitato ad una contrapposizione tra modelli sindacali: siamo di fronte al tentativo esplicito di ridurre spazi di partecipazione sociale, ad un revisionismo che riduce libertà (Ddl sicurezza e non solo). La risposta deve tenere quindi legate la questiono sociale e quella democratica, dando continuità all’iniziativa, sviluppandola nei territori, ma anche sostenendo i movimenti e la mobilitazione diffusa (14 dicembre, studenti, precariato universitario).

In questa articolazione di propensioni, emerge un vuoto di strategia. Al di là di vaghi riferimenti ad analisi, decisioni e obiettivi delle precedenti riunioni, il documento approvato comprende una positiva adesione al corteo di movimento del 14 dicembre, ricostruendo nel contrasto al governo una prassi ed una prospettiva di fronte unico: una convergenza in cui le strutture CGIL si inseriscono alla pari e senza primazia in una coalizione ampia, anche di soggetti e realtà autorganizzate, che porta nell’iniziativa i settori più radicali e di avanguardia (la Rete liberi/e di lottare) insieme a forze della sinistra parlamentare e riformista. Questo però non basta. La giusta segnalazione dello sciopero come spartiacque rispetto alla consapevolezza di quanto sia necessario e urgente dare una risposta collettiva alle politiche inique e sbagliate portate avanti dal governo e all’atteggiamento delle imprese (sottolineando quindi che oggi c’è uno spartiacque rispetto alle necessità di contrastare governo ed imprese), è seguita da una serie di titoli: la radicale contrarietà all’aumento delle spese militari e alla conversione dell’economia europea in un’economia di guerra, la sottolineatura della chiara volontà politica di impedire, con modalità autoritarie, la pratica democratica della partecipazione, del confronto e del conflitto sociale per cambiare lo stato delle cose; l’intenzione di contrastare la precarizzazione del lavoro, la svalorizzazione dei salari e delle pensioni, la messa in discussione dei contratti nazionali, della rappresentanza e della sicurezza; la rivendicazione di aumenti salariali che tutelino il potere di acquisto e redistribuiscano la ricchezza [cioè, siano oltre l’inflazione, senza richiamare in questo testo ipotesi bislacche e regressive di defiscalizzazione]; la prospettiva di rilanciare, da subito e ancor di più nei prossimi mesi, le iniziative di mobilitazione e di lotta contro la chiusura di fabbriche e realtà produttive, richiamando anche la rivendicazione di un nuovo blocco dei licenziamenti; la denuncia la scelta gravissima e deliberata dell’accordo separato in Funzioni Centrali ed il sostegno la proposta di referendum avanzata dalla Funzione pubblica, insieme a Uil e Usb di categoria. Tutto sostanzialmente giusto e, in linea generale, anche relativamente complessivo. Il problema è che tutto questo non risponde alla domanda posta: che fare?

Una linea inconcludente e spersa. Il documento infatti non propone, oltre i titoli, nessun svolgimento: non ci sono percorsi, obbiettivi intermedi, tempistiche e azioni. Si allude, ma non si programma e non si costruisce una stagione di mobilitazione. Del resto, la prima stagione della segreteria Landini era stata segnata da altre allusioni: l’unità sindacale organica con CISL e UIL (ragioni politiche della divisione sindacale sono state superate dalla storia), lo sviluppo di una nuova codeterminazione produttiva (per cogestire ristrutturazioni e nuove politiche industriali), la defiscalizzazione dei salari (per difenderli senza intaccare la competitività). Anche qui dei titoli, che evocano prospettive strategiche diverse se non opposte a quelle evocate oggi, ma che in realtà ieri come oggi non si concretizzano in nessuna pratica. Nella divergenza delle prassi contrattuali e nel sostanziale fallimento di quel loro coordinamento prospettato a Bologna (basta vedere la disarticolazione di aumenti, meccanismi salariali, considerazione dei precari nell’ultima tornata di rinnovo dei CCNL), tenendo contro dell’assenza di una strategia confederale condivisa verso il padronato o i percorsi di mobilitazione, l’unica vera prospettiva che rimane è quella referendaria. Il voto in primavera diventa il terreno privilegiato, se non l’unico, sul quale la CGIL prova a sviluppare l’intervento di massa. Però, al di là della difficoltà dell’obbiettivo (portare al voto 25 milioni di persone), quello rimane soprattutto un terreno politico di misurazione del consenso e della forza del governo, può (forse) aprire una crisi nella maggioranza, ma non ribalta la realtà dei rapporti di forza tra le classi. La linea confederale in questi anni è stata inconcludente, nel senso che non era strutturalmente in grado di portare a casa qualcosa: non si riesce a cogestire una Grande Crisi. Oggi è anche spersa, nel duplice senso di esser senza un cammino e sparpagliata. L’eventuale sconfitta la referendum lo renderà esplicito, aprendo una possibile crisi anche negli assetti e nella transizione alla prossima segreteria. L’eventuale vittoria, rinsaldando chi l’ha voluta e le sue ipotesi sui futuri assetti, terrà ancora sullo sfondo questa disarticolazione e questo vuoto. Però, non li risolverà. Il problema della forza e dell’organizzazione del lavoro nei confronti del capitale sarà comunque al centro degli eventi e quindi della discussione sindacale dei prossimi anni.

La forza del lavoro e del sindacato si misurerà soprattutto su altri appuntamenti, a partire dai prossimi mesi. Su questo, la destra CGIL coglie un punto: il problema è che gli dà la risposta sbagliata (l’inseguimento della cogestione). Oggi, infatti, è la controparte che, in un contesto di frammentazione e disorganizzazione del lavoro, sta cercando di sfondare e determinare un’ulteriore arretramento della classe. L’offensiva si gioca almeno su tre fronti.
In primo luogo, il CCNL metalmeccanico. Nel 2016 (il rinnovo peggiore della storia) il padronato aveva incassato l’ingabbiamento degli aumenti sull’IPCA depurata (meccanismi semiautomatici ex post), la distinzione tra Trattamento Economico Minimo e Trattamento Economico Complessivo (una componente salariale in welfare e servizi), il principio dell’assorbibilità e la conferma delle flessibilità (straordinari obbligatori). In un’imprevedibile fase di alta inflazione, l’uso di quei meccanismi ha in realtà difeso il salario reale (una sorta di scala mobile ritardata, incompleta ed ex post, ma di fatto automatica). Allora oggi Assital chiede di rivedere nuovamente la struttura salariale: la sua contropiattaforma delinea CCNL quadriennali, slittamenti nel tempo degli adeguamenti e ulteriori incertezze sugli aumenti. L’andamento di questo rinnovo, come è stato nel 2016 con l’accordo quadro, come è stato tante altre volte nelle relazioni sociali di questo paese, influenzerà i rapporti di forza complessivi e la dinamica degli altri contratti.
In secondo luogo, i contratti pubblici. La sottoscrizione di un accordo separato nelle Funzioni Centrali (ministeri ed enti nazionali) segna uno spartiacque. Su un piano generale, dopo quindici anni si riapre una stagione di divisione sindacale (allora esitata nell’esplosione di ogni modello generale, nell’uscita di FIAT e GDO dai CCNL), per la prima volta nei pubblici (l’accordo separato del 2009 era relativo al solo biennio economico, non alla parte normativa). Su un piano specifico, si cristallizza gli aumenti tabellari di tutti i pubblici al 6%, predeterminando i rinnovi degli altri comparti (Sanità, Enti locali, Istruzione e ricerca): questa dinamica, però, ad ora non è estendibile, per l’assenza di una maggioranza CISL-autonomi o di un loro accordo, oltre che per le prossime elezioni RSU. Di fatto, la contrattazione pubblica è in stallo per qualche mese (a triennio scaduto, con una dinamica strutturale di ritardo triennale), in un sistema già ingabbiato dalla normativa (il Dlgs 165/2001 vincola fortemente ambiti e dinamiche contrattuali). Si offre così ulteriore potere all’Amministrazione, mentre il governo prova a re-introdurre una logica gerarchica e disciplinata dell’impiego pubblico (Codice di Disciplina, caso Raimo, valutazione Dirigenti Scolastici dal Ministero, ecc). Il contrasto di questa deriva non può basarsi solo sul referendum autorganizzato (CGIL, UIL, USB), ma dovrà sviluppare conflitto. In ogni caso, il voto del 14, 15 e 16 aprile (RSU 2025) potrebbe contribuire a sbloccare lo stallo, con la tenuta, l’avanzamento o l’erosione del blocco CISL-autonomi che ha sottoscritto quell’accordo.
Infine, la gestione della crisi industriale (automotive e chimica di base in particolare, ma non solo). L’assetto produttivo italiano è già stato scompaginato dalla Grande Crisi e la doppia recessione 2009/2012: è saltato il salotto buono e sono implosi i distretti, si sono strette le filiere con la Germania, è cresciuta la propensione esportatrice del cosiddetto quarto capitalismo, in una frammentazione di strategie di accumulazione e forme di regolazione che ha incrementato le divergenze territoriali del paese. In ogni caso, l’Italia rimane ancora la seconda manifattura d’Europa, con oltre 4 milioni di operai, un 30,2% dei lavoratori nell’industria, un 40% di classe operaia se vi includiamo i salariati di commercio e servizi [Ardeni, P. G. (2024). Le classi sociali in Italia oggi. Laterza]. Il tessuto industriale del centro nord è profondamente connesso al nucleo tedesco e la ristrutturazione energetica/green, la debolezza della concentrazione capitalistica del paese, il riorientamento della struttura produttiva mitteleuropea nella nuova stagione di contrapposizione internazionale rischiano di disgregare ulteriormente capitale e lavoro nel paese. Bisognerà vedere come la classe lavoratrice l’attraverserà nei prossimi anni, tenendo conto che, come insegna GKN, la resistenza operaia e sindacale non può tenere al solo livello di stabilimento.

La rivolta sociale non la si decide nel direttivo di un organizzazione, si sviluppa nelle piazze e nei movimenti: se e quando si svilupperà, magari ci travolgerà e forse qualcuno qui proverà pure a fermarla. Lo sottolineava giustamente Eliana Como all’ultima AG della CGIL. Il problema oggi è che la disorganizzazione della classe lavoratrice, la frammentazione dell’avanguardia diffusa (la reti di delegati e attivisti nei posti di lavoro), la scomposizione di coscienze e soggettività determina nel complesso un arretramento persino maggiore dell’inconcludente e spersa reazione delle direzioni sindacali. In questa stagione, allora, è importante cogliere, sostenere e rilanciare ogni dinamica parziale, ogni processo di resistenza, ogni sviluppo di convergenza. A partire dal sempiterno nucleo di fondo dei conflitti che si sviluppano nei processi produttivi (salario, orario, intensità dei ritmi, controllo del lavoro, salute e sicurezza): è da questi conflitti che possono prendere forma processi collettivi in grado di ritessere un’identità generale del lavoro. Per questo, proprio in questa stagione, è fondamentale tenere il punto sulla difesa di un punto di vista di classe nel conflitto sociale. E, con questo punto di vista, è importante impegnarsi perché la CGIL e le sue strutture inneschino, accompagnino e non ostacolino quei processi di mobilitazione, autorganizzazione e movimento che possono nascere nello scontro di classe, a partire dai tre fronti prima richiamati. Questa oggi è la funzione principale di un’area sindacale alternativa, ma più in generale del sindacalismo conflittuale e dei settori classisti politici e sociali. Nel nostro piccolo, ci proviamo.

Luca Scacchi