Il 18 e 19 gennaio 2024 si è tenuta a Roma l’Assemblea Generale della CGIL, per una discussione a tutto campo, di carattere seminariale, sull’attuale situazione e su come proseguire la mobilitazione avviata lo scorso autunno (con interventi esterni e senza risoluzioni conclusive). La prima giornata, in particolare, ci sono stati approfondimenti con alcuni ospiti sull’Europa e la situazione internazionale, oltre che sulle modifiche costituzionali avviate dal governo Meloni [premierato e autonomia differenziata]. La seconda giornata si è invece concentrata sul confronto tra i componenti dell’AG e sulle proposte avanzate nella relazione del segretario generale. In particolare, è stata avanzata la possibilità di usare, a fianco dell’iniziativa contrattuale, tre ulteriori strumenti di azione: un pacchetto referendario su diversi temi lavoristici (tra cui ad esempio licenziamenti, precariato, appalti), alcune proposte di Legge di Iniziativa Popolare (per delineare proposte oltre ipotesi di abrogazione), lo sviluppo di conteziosi giuridici (come nei mesi scorsi su salario adeguato in alcuni settori). Il dibattito ha visto numerosi interventi (oltre una trentina) ed è stato insolitamente franco, forse la prima vera discussione dopo la conclusione del XIX congresso la scorsa primavera.
L’Assemblea Generale della scorsa settimana [27 febbraio 2024) ha quindi concluso il confronto, con la votazione di un documento conclusivo che ha delineato le iniziative dei prossimi mesi e un nostro voto [come Radici del Sindacato] di fatto contrario, come motivato in sede di dichiarazione di voto dalla nostra portavoce, Eliana Como.
Per rispetto del dibattito nell’organizzazione, riporto solo ora, una volta che si è concluso, gli appunti del mio intervento all’assemblea generale precedente.
Compagni e compagne,
io credo che nella nostra discussione, anche nella discussione importante di oggi, abbiamo mancato un pezzo. Forse anche perché l’Assemblea generale scorsa ha aperto un dibattito, ma diciamo che in realtà non l’ha mai chiuso. Abbiamo quindi mancato di approfondire una parte del ragionamento, che pure Maurizio [Landini, ndr] aveva iniziato ad affrontare nella relazione all’Assemblea generale scorsa e che in qualche modo ha anche ripreso ieri in un passaggio. Sto parlando del bilancio di come è andato lo sciopero. La rapida chiusura della scorsa AG, la limitatezza del dibattito e di conclusioni, ha evitato di fissare delle coordinate condivise tra noi. E così è stato anche nell’organizzazione, nelle categorie e nei territori, dove non ho visto condurre questo confronto. Io credo sia necessario costruire sulla nostra azione una maggior consapevolezza, con un’analisi di dettaglio dei risultati dello sciopero, una discussione e un confronto puntuale, capace di sviluppare consapevolezza collettiva.
Io credo sia da trarre un bilancio non solo dell’ultima tornata di scioperi, quelli tra novembre e dicembre. Dobbiamo farlo su quelli degli ultimi tre anni. Le mobilitazioni contro le leggi di bilancio dell’ultimo triennio hanno infatti forti elementi di continuità: discuterne i limiti ci serve proprio per capire come proseguire l’iniziativa di mobilitazione. Sottolineo la continuità dell’iniziativa tra il 2021 e oggi perché questi ultimi tre scioperi generali sono stati tutti condotti ad autunno inoltrato (a ridosso dell’approvazione parlamentare delle politiche economiche del governo), sono stati tutti condotti senza la CISL e insieme alla UIL [parzialmente lo scorso anno, a seconda delle Regioni], sono stati tutti scomposti. Scomposti nel senso che, sono stati costruiti con un’articolazione delle date di sciopero a seconda di categorie e territori. Tre anni fa, istruzione e ricerca avevano scioperato la settimana prima (con le altre organizzazioni di categoria, meno la CISL Scuola, Università e Ricerca), le poste e i bancari che non riuscirono a scioperare per la normativa antisciopero. Due anni fa, gli sciopero furono indetti regionalmente, talvolta con la UIL talvolta senza. Quest’anno abbiamo avuto 5 giornate di sciopero territoriale, con alcune categorie concentrate nazionalmente la prima giornata (pubblici, poste e trasporti in particolare).
Gli scioperi quest’anno sono andati meglio delle esperienze scorse, ma tutti e tre gli scioperi segnano una grossa difficoltà a mobilitare l’insieme di lavoratori e lavoratrici su questioni generali. Il primo anno, con il primo sciopero generale dal 2014, la prima iniziativa dopo la lunga stagione dell’emergenza sanitaria, la mobilitazione fu segnata da grosse difficoltà nel pubblico impiego, piazze limitate ma segnate da una ripresa di protagonismo di fabbriche e settori sindacali classici. Lo scorso anno fu un disastro, con piazze limitate a gruppi dirigenti e settori più militanti, tassi di adesione complessivi di qualche punto percentuale. Quest’anno abbiamo appunto visto una ripresa, 300/350mila persone nelle diverse piazze, un’adesione migliore nel pubblico oltre che nei soliti settori sindacalizzati. Anche se comunque limitata. In questi stessi anni, in questi stessi mesi, alcuni scioperi di settore sono venuti molto meglio, con un’adesione significativa e un impatto evidente nelle proprie realtà. Pensiamo a Trenitalia dopo l’incidente in Calabria (che ha bloccato di fatto la circolazione nel paese, con effetti che sono durati anche su tutto il giorno successivo), allo sciopero del legno la scorsa primavera sul contratto nazionale, allo sciopero della scuola a maggio dell’anno scorso. La prima cosa che colpisce, infatti, è la differenza tra la partecipazione a lotte di stabilimento, di settore, di categoria, e gli scioperi generali degli ultimi anni.
Questo, io credo, è il risultato di un decennio di estrema frammentazione e perimetrazione delle iniziative sindacali. La disarticolazione contrattuale seguita alle recessioni del 2009 e del 2012, con il tramonto del modello contrattuale precedente (accordo separato del 2009), ha lasciato tracce profonde. Una disarticolazione contrattuale che si è intrecciata con una divaricazione di modelli e strategie di accumulazione nel sistema produttivo italiano, a sua volta amplificata dalla pandemia e dalla successiva ripresa. Condizioni, conflitti e cicli di lotta si sono sempre più confinati all’interno dei propri settori, all’interno delle proprie aziende. Nel pubblico, persino all’interno della propria specifica condizione lavorativa. Così, oggi, c’è una difficoltà di partecipazione, convinzione e comprensione delle iniziative di mobilitazione generali. Una dinamica evidente nei dati del pubblico impiego, che sono in grado di offrire una rilevazione più oggettiva e complessiva dell’adesione agli scioperi, indicativa non solo dei settori o delle realtà più sindacalizzate, ma anche delle molte disperse e precarie che oggi segnano il mondo produttivo. Questi dati sono in fondo visibili anche nelle manifestazioni, segnate dai colori sindacali, dall’omogeneità degli spezzoni e dalla segmentazione delle piazze, indice di una partecipazione soprattutto di militanti e attivisti sindacali, meno dell’ampia massa di lavoratori e lavoratrici (che tende ad organizzarsi per luogo di lavoro). Questi risultati, ci indicano con chiarezza la priorità della ricomposizione del lavoro, la necessità di parlare, attivare e coinvolgere l’insieme del lavoro.
Mi ha colpito molto anche che non abbiamo riflettuto, come gruppo dirigente, su come è andata la consultazione. Un’iniziativa su cui abbiamo investito molto, in termini sia politici e sia di energie, ma di cui poi non abbiamo più parlato. Maurizio, nella scorsa relazione, ci ha detto che hanno partecipato circa 1.050.000 lavoratori e lavoratrici. Un numero che conferma le dimensioni di massa della nostra organizzazione. Però, nel contempo, conferma anche i limiti di questa stagione. Sono 300.000 in meno rispetto al Congresso, dove a votare erano però solo gli iscritti alla Cgil. Ma al di là di questo e dei dati più o meno reali del Congresso, su cui ci abbiamo espresso le nostre valutazioni e su cui non voglio tornare ora, questi numeri indicano i confini della nostra attuale capacità di parlare e coinvolgere lavoratori e lavoratrici. Un milione di lavoratori e lavoratrici sono meno la metà dei nostri iscritti attivi. Un perimetro di massa ma limitato, che conferma la nostra difficoltà a coinvolgere, parlare, attivare l’insieme del lavoro. Sarebbe utile avere i dati disaggregati: per capire con quali strati della classe lavoratrice siamo più capaci di interloquire e di farlo con modalità collettive (al di là della tutela individuale o dei servizi).
Questo perimetro della nostra azione io credo debba essere oggi la nostra prima preoccupazione. Proprio per capire come proseguirla e svilupparla. Nella consultazione e nella costruzione dello sciopero generale, in quelle piazze, in questa Assemblea generale, noi abbiamo sempre sottolineiamo il fatto che la mobilitazione la vogliamo proseguire. Eravamo, cioè, consapevoli sin dall’inizio che non sarebbe bastato uno sciopero generale e che per riuscire ad incidere sull’azione del governo, era necessaria una stagione di lotta di più ampio respiro e durata. Per farlo, allora, abbiamo bisogno di verificare i punti di forza, di tenuta e debolezza, lavorando su questi. Il primo dato, mi sembra, è siamo di fronte ad una classe lavoratrice scomposta, con settori diversi che reagiscono e partecipano in modo differenziato all’iniziativa sindacale.
Questo dato, allora, sottolinea la necessità di esser attenti su questo versante. Ci dice anche che forse una parte del problema è stato anche nostro, soggettivo, nelle forme e nelle modalità con cui abbiamo costruito queste mobilitazioni. In primo luogo, nella disarticolazione delle date e delle iniziative, che non ha aiutato a cogliere l’impatto e il senso di una mobilitazione generale. Quest’anno, credo, ha pesato anche il fatto che l’importante campagna di assemblee (che, appunto, in qualche modo si faceva carico del problema di riavvicinare l’iniziativa sindacale all’insieme del lavoro), è stata fatta a distanza di tempo dallo sciopero effettivo. Nel mio settore, anzi dappertutto, la maggior parte delle assemblee sono state fatte prima del 7 ottobre, a più di un mese dallo sciopero effettivo e soprattutto quando ancora non si sapevano ancora date, forme, modalità delle giornate di sciopero. Abbiamo dovuto parlare due volte con lavoratori e lavoratrici, uno per presentare la piattaforma e il senso della nostra iniziativa, l’altra per confermarle e comunicarne le modalità. Questo doppio passaggio non ha aiutato, ha creato distanza.
Dobbiamo capirlo perché il centro oggi è come proseguire le mobilitazioni. E qui c’è il tema dei referendum e delle eventuali Leggi di iniziativa popolare. Guardate, la dico così: io ho avuto l’impressione che nella la discussione di oggi ci sia stata, come dire, un’incomprensione sullo strumento del referendum. Un’incomprensione o, almeno dal mio punto di vista, un’interpretazione di quello strumento che ritengo sbagliata. Sono d’accordo con chi ha detto che i referendum sono uno strumento e anche che sono degli strumenti utilizzabili anche dal sindacato. Credo, anzi, che questo punto non sia in discussione, perché come CGIL lo abbiamo già usato: qualcuno lo ha ricordato, solo qualche anno fa abbiamo raccolto un milione di firme proprio su tre quesiti referendari. Il problema, però, è che in alcuni interventi mi è sembrata di cogliere l’intenzione di usare i quesiti referendum come una piattaforma programmatica, da una parte in grado di delineare gli assi della nostra azione e dall’altra di comporre, o almeno tratteggiare, un possibile blocco sociale alternativo, una rete di alleanze con altri soggetti che accompagnano la nostra azione (dentro e oltre La via maestra).
Questo, secondo me, è un uso per noi sbagliato dei referendum. La dico così, noi non siamo il Partito radicale o Rifondazione comunista. Ho pieno rispetto per questi soggetti politici. Quello che voglio dire è che la CGIL non è un soggetto politico limitato o marginale, con una scarsa proiezione di massa, che ha legittimamente l’obbiettivo di porre nel dibattito pubblico e nel paese alcuni temi della propria agenda e, magari, riuscire anche a costruire attraverso quella strada dei cambiamenti nel paese. Per queste realtà, il pacchetto referendario, e in alcune occasioni anche le LIP, o una loro combinazione, sono spesso appunto uno strumento programmatico per delineare cosa vogliono fare e aggregare compagni di viaggio. La CGIL è un sindacato di massa, che ha la responsabilità di praticare un’azione di trasformazione sociale a partire dal suo terreno, la difesa degli interessi e dei diritti del lavoro, che pratica i referendum per fermare delle trasformazioni avverse, per fare battaglie e cercare di vincere. Allora il problema non è indicare con LIP e Referendum cosa vogliamo fare, non è costruire una coalizione intorno ai temi, ma capire come riusciamo a contrastare l’azione concreta del governo Meloni. Fermare quello questo governo reazionario sta facendo nelle cose, dei pezzi di realtà. Su questo obbiettivo dobbiamo valutare senso, tempi e proposte referendarie.
Qui sorge il primo problema. Il referendum è infatti un arma a doppio taglio. Nella storia, infatti, ha sempre avuto due effetti: uno che costruisce, diciamo così, il tuo consenso, ma l’altro è che costruisce anche il blocco avversario. Chiamando ad esprimersi per il SI o per il NO, per il voto o per l’astensione, polarizza opinioni e forma schieramenti in entrambe le direzioni. I primi due referendum della storia di questo paese li abbiamo vinti, ma perché hanno perso i proponenti. Fanfani nel 1974, il Movimento per la vita nel 1981 hanno usato questo strumento pensando di riuscire a cogliere e organizzare un consenso maggioritario, la cosiddetta maggioranza silenziosa basata su valori cattolici e tradizionali, smontando così quella dinamica progressiva sul terreno dei diritti civili che i movimenti sociali avevano costruito anche nella politica e nell’opinione comune. Non hanno capito che, proprio con lo strumento referendario, hanno dato l’occasione di organizzarsi e misurarsi anche al campo avverso. Come ha detto qualcuno da questo palco qualche intervento fa, questo in fondo è stato anche il problema del 1985, del referendum sulla scala mobile: nei settori metalmeccanici, negli autoconvocati, nella CGIL si pensava di vincere, ma si è perso (diciamo sul filo di lana) perché non si è colto che si è anche organizzato il campo avverso, aiutato a tessersi quello schieramento sociale contro il lavoro che Craxi e il PSI avevano iniziato a interpretare. Quando si sono vinti dei referendum, o dei pacchetti di referendum, è invece quando dei temi ampiamente sostenuti nell’opinione pubblica, il cui valore era ritenuto importante per ampi settori e in cui si percepiva un blocco del ceto politico, hanno avuto la possibilità di condensarsi in una proposta precisa: pensiamo all’acqua pubblica nel 2011 (al termine della lunga onda neoliberista), alla preferenza unica nel 1991 (contro il sistema clientelare, con un voto di massa contro chi proponeva di andare al mare, che poi in tanti si sarebbe voluto rimangiare), o ancora al nucleare nel 1987 (dopo Chernobyl). Pensiamo anche solo alle centinaia di migliaia di firme raccolte in 3/4 settimane per la legalizzazione delle cosiddette droghe leggere, su un testo poi bloccato dalla Corte.
Allora, il nucleo centrale della nostra azione nei prossimi 12 mesi, io credo debba esser diverso. Proprio davanti ad una situazione così drammatica (la guerra, il governo reazionario, le trasformazioni effettive che stanno conducendo nel paese), il cuore della nostra azione deve esser quello della difesa di salari e diritti. Deve esser la prosecuzione della mobilitazione iniziata questo autunno, sul versante dei rinnovi contrattuali e contro il governo. Lo hanno detto molti interventi. Anche qui, però, credo come dire che ci sia stata un’incomprensione, un’interpretazione sbagliata di questa priorità. Io non credo che il nostro obbiettivo principale sia quello di rinnovare i contratti nel 2024, di chiuderli prima possibile confermando l’attuale assetto (triennali, IPCA depurata, TEM e TEC), come sentito da alcuni. Io non credo che la strada per battere questo governo sia sviluppare ampie alleanze sociali, riproporre in forme inedite un nuovo patto dei produttori, costruendo un asse con Confindustria e i datori di lavoro che blocchi le tentazioni di travolgere gli attuali assetti contrattuali nella legge delega sulla contrattazione, confermando gli attuali modelli ed equilibri. Non lo credo, perché sono proprio questi assetti e questi equilibri che negli ultimi trent’anni hanno logorato interessi, diritti e organizzazione dei lavoratori e lavoratrici.
La priorità che dobbiamo porci per il 2024, allora, è quella di difendere il salario reale. Dopo due anni di inflazione significativa a due cifre, che ha tagliato il 20% del potere d’acquisto del salario dei lavoratori, l’obbiettivo che dobbiamo porci è quello di riconquistare per tutti il salario perso (non solo per alcuni settori o condizioni). Lo dico a partire dalla mia categoria. Nei pubblici, le risorse messe sulla legge di bilancio sono limitate al 5,78%, che il governo vorrebbe distribuite almeno in parte con criteri premiali, meritocratici. Vorrebbe dire che al termine di quest’inflazione, il loro salario reale sarebbe tagliato di oltre il 15%. Guardate, se questo fosse il risultato finale di questa stagione contrattuale in molti settori, io credo che avremo due problemi. Il primo di rappresentanza: se un sindacato non difende nemmeno il prezzo della forza lavoro, se non risponde alle sue ragioni di fondo, ha un problema. Il secondo, è che proprio in una fase di scomposizione del lavoro, questo risultato aumenterebbe la frammentazione. Perché la probabile dinamica concreta non sarebbe quella di un taglio generalizzato, ma di un probabile aumento dei ventagli salariali: settori specializzati e professionali faranno comunque valere la propria forza, conquistando aumenti oltre il CCNL, mentre nel processo dell’autonomia differenziata diventerà possibile magari costruire contratti o integrazioni regionali, scomponendo ulteriormente il lavoro.
Il nostro problema principale, allora, è come proseguire sul versante del conflitto le mobilitazioni dello scorso autunno. I rinnovi contrattuali, se dovranno realmente conquistare salario, non si conquisteranno infatti al tavolo, giocando di sponda con il padronato, ma dovranno esser conquistati contro padronato e contro il governo, dalle piazze. Ma come far vivere la battaglia contrattuale di difesa del salario reale dei lavoratori e lavoratrici nella prossima primavera, a partire dagli scioperi? Questa deve esser la nostra riflessione immediata. Guardate, il comportamento effettivo di una persona non dipende solo dal suo sentiment [verso il governo, la CGIL o lo sciopero, ad esempio]: le co-occorrenze in ampie banche dati di testo tra un concetto e le valutazioni verso questo oggetto (aggettivi, valutazioni, like, ecc) possono indicare un opinione (quindi esser usate come termometro di un atteggiamento), ma il comportamento effettivo (il voto, l’iscrizione alla CGIL, la partecipazione ad uno sciopero) dipende da variabili più articolate e complesse. Ad esempio, le rappresentazioni collettive di quegli oggetti (al di là del sentiment, quello che quella cosa si creda sia nel mio gruppo sociale di riferimento), le aspettative che si hanno, le norme sociali (cosa faranno le persone intorno a me e quelle che sono importanti per me), il grado di autoefficacia (la valutazione su quanto io sarò in grado di comportamenti in quel modo). Per questo la CGIL ha sempre privilegiato il lavoro di inchiesta e non i sondaggi. Così, allo stesso modo, il risultato di uno sciopero non si può valutare solo sull’adesione: questo ne è ovviamente un aspetto, ma se ci si limita a questo si rischia di perdere molto e, forse, l’essenziale per capire cosa è successo. Uno sciopero si valuta anche dal numero di siti chiusi, dalla capacità che si ha di bloccare o rallentare la produzione, dall’ostacolo che si è creato nei processi produttivi e nella produzione del valore, dalla paralisi che si crea nei processi sociali più complessivi. Qui, a pesare, non è la semplice adesione, ma la capacità di pesare su alcuni settori, mansioni, gangli della produzione e della società. Questo è il potere sindacale. Allora, anche nello sviluppo della nostra azione sindacale, ritengo utile iniziare a ragionare su forme e modalità di sciopero in grado di far male, con il minimo impegno e il massimo risultato. In una lotta che potrebbe esser anche di lunga durata. Cogliendo gli stimoli che ci vengono anche da questo palco, come dall’intervento di Franco Grondona, sull’ipotesi di bloccare con scioperi prolungati alcune realtà, sostenendole con casse di resistenza.
Chiudo. In tutto questo c’è un tema diverso, l’autonomia differenziata. L’ha sottolineato in particolare Gianna [Fracassi, segretaria FLC, ndr] ed è assolutamente vero. Nel quadro della deriva autoritaria che questo governo sta impostando, c’è un immediato versante sociale delle trasformazioni costituzionali che impatta sulla vita di lavoratori e lavoratrici. Lo ha detto proprio Gianna con precisione: non è solo la diversificazione territoriale e la questione meridionale, è la privatizzazione del sistema pubblico, è l’ulteriore divisione del salario sociale. Forse allora il referendum istituzionale sul presidenziale potrà intrecciarsi con uno promosso da chi è contrario all’autonomia differenziata, unendo anche nel voto quelle trasformazioni costituzionali. Anche se non so quanto sarà possibile e come, tenendo conto dell’intreccio di quella legge con questioni fiscali e della sua forma particolare. Io però penso che sarebbe sbagliato porsi oggi l’obiettivo di arrivare a un referendum sull’autonomia differenziata. Non sappiamo neanche i tempi con cui sarà approvata definitivamente la legge Calderoli: io spero in autunno dentro una dinamica di contrasto parlamentare e scivolamento politico. Vedremo. Quello che so è che oggi, invece, è il momento di stare dentro le piazze, di sviluppare movimenti e mobilitazioni contro questa Autonomia Differenziata. Costruire informazione, contro-informazione, attivazione, su un tema comunque non immediato e su cui in alcuni settori ci sono consensi anche di massa. Su questo, oggi, la CGIL è sin troppo timida. Lo abbiamo visto, come detto, nei presidi del 16 gennaio promossi dal Tavolo No AD. Lo vediamo nell’assenza di assemblee, iniziative, campagne nei luoghi di lavoro. Se noi oggi guardiamo immediatamente al referendum, credo che saltiamo un passaggio e rischiamo di distrarci anche su questo versante dal compito prioritario, costruire movimento contro l’Autonomia Differenziata. Per questo io credo che, come Cgil, abbiamo oggi il compito, l’obiettivo, la responsabilità, di costruire nella prossima primavera la capacità del lavoro di stare insieme nella difesa dei diritti sociali e della democrazia. E questo si gioca nella mobilitazione, a partire dagli scioperi sui contratti, non dalla costruzione di una grande campagna di raccolta firme, per votare (forse) fra 12 mesi.