Intervento di Aurelio Macciò, Assemblea Generale dello SPI, 8 novembre 2023
Non è facile riuscire a intervenire avendo a disposizione pochi minuti rispetto alla quantità di questioni che sono state poste nella relazione introduttiva [di Ivan Pedretti, segretario generale SPI], per cui dovrò tagliare un po’ con l’accetta i ragionamenti che voglio portare nel mio contributo alla discussione.
Innanzi tutto, sulla prima parte della relazione relativa alle vicende internazionali, voglio dire che non sono per niente d’accordo con il quadro che è stato prospettato, o quanto meno al titolo che si è inteso dare a questo quadro, per cui saremmo di fronte a uno scontro epocale tra autocrazie e le vecchie democrazie occidentali. Questo schema non regge alla prova dei fatti, e cercherò di spiegarmi indicando alcuni di questi fatti, come esempi fra i tanti che si potrebbero fare.
Intanto se prendiamo la maggiore delle “democrazie” occidentali, gli USA, per spiegare in due parole di che pasta sono fatte le “democrazie”, basterà ricordare Guantanamo o il grande falso sulle armi di distruzione di massa per giustificare l’avvio dell’intervento militare in Iraq, o ancora, a suo tempo, il sostegno finanziario ai talebani in Afghanistan e più in generale al fondamentalismo politico islamico in chiave anti URSS e contro le forze laiciste nei paesi arabi.
La Turchia, che è stata espressamente indicata nella relazione tra le autocrazie, fa parte dell’alleanza militare a cui anche l’Italia partecipa, la NATO, ed anzi ne costituisce il secondo esercito, dopo quello USA, quanto meno per numero di effettivi. Per approvare l’entrata di Svezia e Finlandia nella NATO, la Turchia ha preteso e ottenuto dal governo svedese la “non interferenza” nella dura repressione contro la popolazione curda, con la fine dell’accoglienza verso attivisti e militanti politici curdi e la loro estradizione. E l’Unione Europea non ha disdegnato di fare accordi a suon di miliardi di euro con la Turchia perché svolgesse il ruolo di gendarme contro i migranti, molti dei quali in fuga da teatri di guerra (siriani, afghani, ecc.).
Oppure un altro Paese, l’Arabia Saudita, governato da un regime iperautocratico, una monarchia ultrareazionaria, è da sempre il più fidato alleato degli USA e delle “democrazie occidentali” in quella regione. Un Paese dove la condizione delle donne è tra le più tragiche al mondo, dove non esiste libertà di culto, anzi vengono mandati a morte i rappresentanti di altre espressioni religiose, in particolare quelli sciiti, la condizione dei lavoratori stranieri, asiatici o africani, è di bestiale sfruttamento, come peraltro sotto i regimi monarchici reazionari degli altri Paesi del Golfo. Con il regime saudita l’Italia e le imprese italiane hanno fatto e continuano a fare senza problemi grandi affari, compresa la vendita di armamenti a un Paese impegnato nella devastante guerra nello Yemen.
Allora, io credo quindi che abbiamo a che fare non con uno scontro tra democrazie occidentali e autocrazie, con molte delle quali si fanno lucrosi affari e alleanze economiche, politiche e militari, ma invece da un lato con uno scontro, questo sì epocale, tra imperialismi, vecchi e nuovi, e per l’affermazione di potenze regionali nei diversi scacchieri, nel quadro di un ridisegno dell’ordine mondiale, o per meglio dire del disordine mondiale, dall’altro con società – tutte le società – divise in classi, tra sfruttati e sfruttatori, tra chi per vivere ha la necessità di vendere la propria capacità di forza lavoro e chi specula su questa necessità.
Per venire invece più alle questioni di casa nostra, noi abbiamo passato i mesi di settembre e ottobre in tante assemblee sui posti di lavoro e sui territori, in cui è stato richiesto a lavoratori e lavoratrici, pensionati e pensionate, di votare per un percorso di mobilitazione che includeva lo sciopero generale.
Certo, una decisione a mio – e non soltanto mio – avviso piuttosto impropria, quella di far votare i lavoratori sullo sciopero. Inoltre veniva precisato, dello sciopero generale, “se sarà necessario, nel rapporto con CISL e UIL”.
Eppure, che ve ne fosse la necessità, era evidente già da un pezzo, senza il bisogno di dover aspettare di conoscere il testo del Disegno di Legge di Bilancio, peraltro già preannunciato nel DEF. C’erano già tutti i precedenti provvedimenti definiti dal Governo nei mesi scorsi. Solo per citarne qualcuno, dalla cancellazione del reddito di cittadinanza alla cosiddetta “riforma” fiscale, dal progetto di autonomia differenziata al diniego di ogni ipotesi di salario minimo.
Adesso però noi non faremo propriamente uno sciopero generale, tutt’al più potremmo definirlo un inedito sciopero generale a pezzi, uno sciopero diluito su 5 diverse date, articolato o per meglio dire disarticolato, un po’ per regioni e un po’ per categorie, in una condizione per cui nella stessa regione in alcune categorie vi saranno settori che faranno sciopero in una data e altri settori in una data diversa, addirittura in alcuni servizi (vigilanza, pulizie, mense, ecc.) i lavoratori di una stessa azienda saranno in sciopero in date diverse, a seconda di quale sia l’azienda committente!
È evidente come ben altro impatto ed efficacia avrebbe avuto una intera giornata di sciopero generale in tutta Italia, in cui bloccare o comunque provare a bloccare l’intero Paese, oltre a un ben diverso carattere confederale e di unità di tutto il mondo del lavoro.
E se andassero in porto le intenzioni dichiarate dal Governo e dalla sua maggioranza per un iter parlamentare veloce, senza la presentazione di emendamenti da parte dei gruppi parlamentari di maggioranza, le regioni del Sud, che faranno sciopero il 1° dicembre, rischiano di farlo quando ormai si sarà chiuso il percorso della Legge di Bilancio. A maggior ragione per la manifestazione dei pensionati, che viene a questo punto spostata dal 2 al 15 dicembre.
Su una manovra finanziaria che, in particolare su sanità e pensioni, va forse oltre ogni negativa aspettativa che potevamo avere!
In particolare, si colpiscono duramente le pensioni (che ricordo sono salario differito), sia quelle in essere che quelle future:
1) Dal 1° gennaio 2025, per le pensioni anticipate, viene ripristinato il meccanismo automatico del legame all’aspettativa di vita, che era stato sospeso dal Governo Conte 1 fino al 2026 (e poi comunque nei fatti dagli effetti dell’aumento della mortalità in conseguenza della pandemia), e quindi il requisito odierno di 42 anni e 10 mesi di contribuzione (1 anno in meno per le donne) potrebbe nuovamente crescere. Altro che quota 41, promessa soprattutto dalla Lega in campagna elettorale!
2) Quota 103 non solo rimane solo formalmente, date le finestre di uscita necessarie per accedervi, che aumentano di ulteriori 4 mesi per i lavoratori privati, arrivando a 7 mesi, e di ulteriori 3 mesi per i lavoratori pubblici, che arrivano a 9 mesi (quindi, nei fatti, quota 103 e ¾), ma soprattutto vi sarà un ricalcolo completamente contributivo anche per i periodi di lavoro precedenti al 1996 e comunque un tetto massimo di pensione non oltre 4 volte il minimo.
3) Per accedere all’ape social si innalzano i requisiti di 5 mesi.
4) Per opzione donna, che ricordo subisce un ricalcolo completamente contributivo, e dopo i limiti alla possibilità di accedervi già operati dalle stesso Governo Meloni nella precedente Legge di Bilancio, si innalzano i requisiti di 1 anno.
5) Vengono previsti pesantissimi tagli alle pensioni dei dipendenti degli Enti Locali, della Sanità (sia i lavoratori del comparto che i medici), degli insegnanti di asilo e delle elementari nelle scuole paritarie, degli ufficiali giudiziari.
6) Come già per quest’anno, la mancata rivalutazione colpirà ancora le pensioni al di sopra di 4 volte il minimo, che non sono pensioni da nababbo, parliamo di cifre intorno ai 1.600 euro netti. E si tratta di anni, questi, con un fortissimo balzo inflattivo! Ivan Pedretti, nella sua relazione, ci ha detto che tra gli iscritti SPI l’85% si colloca su cifre al di sotto di 4 volte il minimo pensionistico. Ma bisogna però tener conto che al SPI non si iscrivono solo ex lavoratori dipendenti, ma anche categorie di lavoro autonomo che hanno pagato minori contributi (artigiani, commercianti, ecc.) e hanno quindi assegni pensionistici inferiori, oltre a chi è titolare di pensioni sociali, o di invalidità anche minime. Se calcolassimo la percentuale tra i soli ex lavoratori dipendenti, sicuramente si alzerebbe quella di chi ha assegni pensionistici superiori a 4 volte il minimo, anche per effetto di eventuale cumulo con le quote di pensione di reversibilità.
Con tutto ciò possiamo adesso ribattezzare la legge Fornero in legge Meloni – Fornero, o ancor meglio in legge Meloni – Salvini – Fornero!
Aggiungo inoltre che il Governo continua a non dare applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale del giugno scorso che ha dichiarato anticostituzionale il provvedimento del Governo Monti (2011) sul differimento e la rateizzazione delle liquidazioni (TFR o TFS) nel pubblico impiego. Differimento di oltre 2 anni dalla conclusione del rapporto di lavoro e rateizzazione agli anni successivi degli importi superiori ai 50.000 euro. Secondo le stime INPS, si tratta di qualcosa che vale tra i 14 e i 15 miliardi di euro.
Concludo. La manifestazione nazionale del 7 ottobre è stata sicuramente significativa e ha quindi creato aspettative tra lavoratori e pensionati, in particolare tra i nostri iscritti. Ma, come ho detto prima, i passi successivi non sono adeguati e corrispondenti a queste aspettative. Occorreva e occorre proclamare un vero ed effettivo sciopero generale, non in forme diluite e disarticolate, di cui c’è un’ampia ed evidente necessità e urgenza, oggi, per proseguire la mobilitazione e provare a dare la percezione che si voglia davvero fare sul serio.