Cosa intendiamo per sindacato di strada?

La CGIL e la rappresentanza di lavoratori e lavoratrici.
Intervento di Luca Scacchi all’Assemblea generale CGIL del 19 luglio 2023

Care compagne e cari compagni,
io credo che la discussione di oggi sia stata importante. Le tre relazioni [tesseramento, formazione e giovani] ci hanno dato un quadro utile. Ringrazio poi Alessandro [Genovesi, segretario generale FILLEA], il primo intervento, che ha segnato questo confronto perché in qualche modo ha provato a ridurre uno iato, una distanza, che io vedo tra il confronto che avviene nel gruppo dirigente più ristretto di questa organizzazione, probabilmente nella riunione dei segretari generali, e la consapevolezza, il coinvolgimento, dell’Assemblea Generale nel suo insieme. Questa distanza, infatti, la si misura proprio oggi, sul tesseramento, l’organizzazione e il nostro sviluppo. Io credo che su questo problema, la distanza che si crea tra direzione effettiva e organismi statutari, cioè sul ruolo dell’Assemblea Generale e su quello della riunione dei segretari generali, dovremmo in qualche modo tornare. Per il momento, però, concentriamoci su questa questione.

La militanza. Ringrazio Alessandro, in particolare, perché ha posto al centro quello che io credo sia qualcosa che, in qualche modo, tiene insieme il ragionamento delle tre introduzioni che abbiamo ascoltato. È il problema della militanza. Di fronte ad un’organizzazione che ha il 40-50% di tessere che gli derivano da un coinvolgimento dei servizi, noi abbiamo il problema di come mantenere e sviluppare radicamento e rappresentanza sui luoghi di lavoro. Di più: in qualche modo noi abbiamo il problema di capire come tessere e organizzare la dimensione collettiva, generale, di un lavoro che si sindacalizza e forse si percepisce prevalentemente sul piano individuale, in relazione alle proprie specifiche tutele o, al meglio, alla propria particolare professionalità.

Allora, al centro della nostra riflessione ci devono essere delegati e delegate. In fondo, è stato uno dei temi della nostra ultima conferenza di organizzazione. Però io credo che sia importante quello che ci ha detto Giorgio [Airaudo, segretario generale Piemonte], sul fatto che noi oggi siamo concretamente di fronte ad una generazione di RSU, RSA, delegati e delegate, che fa sempre più fatica a rispondere ad un ruolo complessivo del sindacalista, del rappresentante sindacale. Cioè, Giorgio ha sottolineato come si faccia sempre più fatica a coinvolgere e candidare lavoratori e lavoratrici, e anche quando poi questi sono eletti sia necessario supportarli. In qualche modo, cioè, ci ha segnalato come il problema della partecipazione, dell’attivismo, della militanza, sia oggi una questione non solo degli iscritti, dai servizi e anche nei luoghi di lavoro, ma arrivi a coinvolgere persino delegati e delegate. Un delegato ed una delegata hanno però un ruolo cruciale per la nostra organizzazione, che vuole esser sindacato generale del lavoro e non solo sindacato degli iscritti. Non devono esser semplicemente preparati tecnicamente, saper leggere la busta paga, rispondere ai quesiti sul contratto, magari saper fare le tessere. Un delegato CGIL, proprio per la natura di fondo della nostra organizzazione, ha anche e forse soprattutto un’altra funzione. Particolarmente in questa fase, in tutto il mondo del lavoro, deve saper rappresentare e unire l’insieme di lavoratori e lavoratrici. Oltre professionalità, livelli, categorie, contratti. Un ruolo complessivo che però fa sempre più fatica ad interpretare.

Guardate, io vengo dall’università. Gli atenei italiani hanno in complesso circa 150mila lavoratori e lavoratrici: 50mila sono contrattualizzati e hanno RSU (il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario), 50mila sono docenti e ricercatori di ruolo (con stato giuridico pubblico), 50mila sono precari: atipici (assegnisti, borsisti, contrattisti vari e spesso anche eventuali, in quanto a diritti e retribuzioni) e in appalto (come la vigilanza privata, in tutti gli atenei statali pagati 5/6 euro all’ora, talvolta i bibliotecari e altri con multiservizi, ecc). Mi rendo conto che è una realtà molto particolare, per varietà e dimensioni: non credo però che in una grande fabbrica, in un’azienda di servizi o in altre realtà del pubblico impiego si trovino oramai condizioni poi molto diverse, con un’ampia stratificazione dei rapporti di lavoro, spesso anche tra lavoratori e lavoratrici che svolgono le loro attività spalla a spalla. Allora, le nostre RSU in università devono ovviamente rappresentare i lavoratori e le lavoratrici che gli hanno eletti: devono cioè fare contrattazione decentrata, difendere e conquistare salario accessorio, svolgere tutela collettiva e individuale. Però le nostre RSU, diversamente dagli altri sindacati confederali, provano a svolgere anche un lavoro diverso. Provano, cioè, a farsi carico di una rappresentanza generale del lavoro nell’università, rapportandosi con gli altri 100mila lavoratori e lavoratrici che popolano gli atenei. Un lavoro difficile e complicato che abbiamo provato a fare come FLC in questi anni. Difficile perché ovviamente ci sono diversità, contraddizioni, interessi diversi, corporativismi settoriali e professionali. Difficile perché il delegato e la delegata deve avere capacità e competenze generali: deve saper guardare il bilancio di un ateneo, esser consapevole delle sue scelte strategiche e conoscere la legislazione nazionale. E devi fartene carico come organizzazione sindacale. Noi oggi, nei 67 atenei statali italiani, abbiamo un quadro di delegati e delegate cresciuto nelle battaglie politiche e sindacali generali degli ultimi vent’anni: non solo gli avanzamenti della contrattazione decentrata o la difesa di quella nazionale, ma anche sui tetti contro la Gelmini e a fianco degli studenti contro tasse e numeri chiusi. Questo quadro è però anziano: alle sue spalle, fatichiamo a crescere una nuova generazione di delegati e delegate consapevole di questo ruolo complessivo.

Quando parliamo di militanza, io credo che in fondo parliamo di questa consapevolezza di esser rappresentanti generali del lavoro. Io non credo che manteniamo, sviluppiamo, costruiamo questa identità e queste pratiche nelle nuove generazioni di attivisti e militanti sindacali, facendo riferimento ad un’identità politica complessiva del PCI che non c’è più. Io credo dobbiamo svilupparne una nuova attraverso la difesa, l’alimentazione, la coltivazione, di un’identità sindacale generale: l’idea, cioè, di esser il sindacato del lavoro, il sindacato del lavoro vivo, contrapposto agli interessi generali dell’altro fattore della produzione (il capitale). Un’identità generale del sindacato che dobbiamo aver la capacità di articolare concretamente nei luoghi di lavoro. Allora, se facciamo questo ragionamento, io credo che dovremmo riflettere di più su come dare forza e sostegno ai nostri delegati e alle nostre delegate. Io non voglio entrare ora nel merito di una vertenza particolare, che d’altra parte tutti i compagni e tutte le compagne qui conosco benissimo: quella della GKN di Firenze. Uno degli elementi centrali di quella vertenza, però, è stata la particolare esperienza di organizzazione sindacale che in quello stabilimento si era sviluppata negli ultimi vent’anni. Un’esperienza particolare se non eccezionale, che è stata condizione e motore della capacità generale di #insorgiamo. Un’esperienza su cui credo che la FIOM e la CGIL abbiano ragionato poco. Troppo poco. È stata l’esperienza dei delegati di raccordo e del Collettivo di fabbrica. Cioè, una pratica che ha recuperato e contrattualizzato nel quadro odierno, in quella realtà aziendale, forme di rappresentanza diretta di turni e reparti, ritessendo le eredità del sindacato dei consigli. Un’esperienza, cioè, che ha costruito strumenti concreti per rappresentare le diverse articolazioni del lavoro nella propria azienda, cercando di riunificare il lavoro, e con questa forza ha quindi portato avanti l’occupazione e la vertenza generale che tutti conosciamo. Io credo questo sia uno dei terreni concreti di riflessione e sperimentazione che dovremmo generalizzare. Proprio per dare forza, sostegno, sviluppo di una dimensione collettiva al delegato e al suo ruolo nei posti di lavoro.

In questo contesto, i soldi. La questione delle risorse, discussa in Conferenza di organizzazione e tornata nell’intervento di Alessandro. Guardate io credo ci sia una tensione [un’ambiguità in realtà ma diciamo una tensione per leggerla oggi in termini positivi] nelle decisioni che abbiamo preso alla conferenza di organizzazione, quando abbiamo detto che vogliamo trasferire risorse ai territori. È esattamente la tensione che ha espresso Alessandro, quando ha detto ma noi i soldi li dobbiamo dare per coprire i buffi delle Camere del Lavoro o per sviluppare l’azione nei posti di lavoro? Sempre territorio è, ma sono due cose molto diverse. Io, come ho segnalato sin dai tempi della conferenza di organizzazione, credo che la nostra priorità siano i luoghi di lavoro. In questo ragionamento, credo che anche in termini di formazione la nostra priorità non debba essere quella del giovane funzionario sindacale, o del segretario territoriale (come in qualche modo posto nella relativa relazione). Io credo che abbiamo bisogno di dare priorità alla formazione sindacale generale dei nostri delegati e delle nostre delegate. Di più: noi abbiamo bisogno di dare formazione, risorse, rilevanza e importanza ai comitati degli iscritti.

È il problema di cosa intendiamo come sindacato di strada. La metto così. Io non credo che il nostro rifermento debba essere alle camere del lavoro di fine Ottocento, che erano in relazione ad un ampio proletariato mobile ma omogeneo, per il 60/70% ancora legato alla terra, che trovava nella camera del lavoro un luogo di organizzazione collettiva generale, anche di ritrovo e socializzazione immediata (dalla mescita del vino alle feste popolari). Oggi in realtà il mondo del lavoro è stratificato e settorializzato, in professionalità, categorie e persino identità sociali molto differenziate. Dovremmo allora forse guardare di più, ed attualizzare, le riflessioni della prima conferenza di organizzazione della CGIL, quella del 1955. Quando di fronte alle sconfitte e all’erosione sindacale dei primi anni Cinquanta, si è scelto di reagire riportando al centro dell’organizzazione le sezioni sindacali: riprendendo quello che ha detto Franco [Grondona] prima, la necessità di costruire una presenza collettiva e organizzata della CGIL nei posti di lavoro.

Perché il delegato o la delegata non è un singolo, in diretto rapporto con l’insieme di lavoratori e lavoratrici. Proprio in una fase come quella di oggi, in cui si fatica a reggere un ruolo complesso e complessivo come questo, noi dobbiamo sviluppare intorno ai delegati e alle delegate una struttura collettiva. Questo vuol dire tempo, permessi, risorse, strutture, e poi certo anche mezzi tecnologici moderni (app e quant’altro).

Qui, secondo me, si pone anche un punto critico con alcune decisioni della conferenza di organizzazione. In particolare, in relazione alla delibera 6 ed ai vincoli di organizzazione che noi abbiamo posto al delegato ed alla delegata della CGIL. Noi dobbiamo valorizzare il rapporto e la funzione di rappresentanza generale di delegati e delegate. Sono i rappresentanti di lavoratori e lavoratrici. In questo ruolo, c’è quindi una dialettica, una tensione, su cui dobbiamo avere il massimo dell’attenzione e del rispetto. Proprio per permettergli di sviluppare la capacità di esser rappresentante dell’insieme di lavoratori e lavoratrici. Non sono la voce, il terminale o il tesseratore della CGIL. Noi, cioè, contribuiamo a ricostruire una capacità di organizzazione della classe organizzatrice se sviluppiamo strutture sindacali nei luoghi di lavoro e a queste diamo capacità, spazi, dimensioni e autonomie.

Noi e i movimenti. Un passaggio, ripreso da molti dell’intervento di Alessandro riguardava l’inesistenza oggi dei grandi partiti e dei grandi movimenti di massa, come il PCI e come Genova 2001. In primo luogo, una battuta su Genova, inevitabile considerando la data di oggi. Molti di noi in quei giorni terribili ma anche esaltanti per la grande partecipazione di massa, erano a Genova. Fisicamente o politicamente. A vent’anni di distanza resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita. Amara e indelebile. Una ferita anche perché la CGIL non c’era. Aveva scelto di non starci, fisicamente e politicamente. Al di là di questo, non è vero che oggi non ci siano grandi movimenti di massa politicizzati. Pensiamo ai Pride. A Friday for future. Alle iniziative studentesche, dalla Lupa romana di qualche anno fa alle accampate di queste settimane. Pensate a Ultima generazione, al suo livello di partecipazione e militanza che mette i propri corpi e la propria libertà al servizio di un ideale politico generale. Non è che abbiamo una generazione che pensa solo ai balletti e a Tik Tok, senza nessun livello di militanza o partecipazione politica. Il problema è che il rapporto collettivo con questa generazione non lo risolviamo con la comunicazione su Tik Tok, spiegando noi a loro come devono organizzarsi o costruendo astrattamente nostre strutture giovanili. Le affrontiamo riconoscendo e supportando l’autonomia, l’autorganizzazione e lo spazio politico a queste realtà: cioè, riconoscendo e valorizzando l’espressione sociale e politica collettiva dei giovani oggi. Interloquendo con i loro movimenti e le loro realtà autorganizzate; con l’autonomia della CGIL, ma sviluppando un rapporto forte di interlocuzione, di sostegno, anche di critica, ma di presenza. A partire, mi viene da dire, dalla difesa di alcuni diritti democratici, contro la repressione ad esempio subita dai ragazzi e dalle ragazze di Ultima Generazione, per aver temporaneamente imbrattato qualche muro e qualche palazzo. Questa organizzazione nel suo complesso è stata troppo timida. E su questo ha misurato la sua distanza, esattamente con l’impegno delle giovani generazioni.

Un’altra cosa. I dati degli iscritti e la loro centralizzazione. Io credo qui ci sia tutta una discussione da aprire. Da aprire, come dire, con più attenzione e più riflessione rispetto al regolamento che abbiamo votato stamattina. Sono alcune ipotesi e, diciamo, suggestioni che sono emerse dalla relazione di Gino [Giove, responsabile organizzativo CGIL], sulle possibilità che la banca dati nazionale degli iscritti può avere. Certo, può avere la capacità di intercettare e supportare nuovi bisogni. Come le app che oggi ti segnalano la scadenza del RC auto o il bollo, uno strumento per contattare e informare direttamente ogni iscritto, dal punto di vista politico generale (un corteo, un’iniziativa) o rispetto la sua specifica condizione (la scadenza di un contratto o la domanda per un sussidio). Però, dentro questi strumenti ci sono dei rischi su cui riflettere. Da una parte, il rischio di rendere dominante la funzione di servizio, e di servizio individuale, del sindacato. Il sindacato esiste e si sviluppo come struttura collettiva. Come ha detto Giorgio [Airaudo], non si milita in un’istituzione di servizio, non si milita per l’INPS. Dall’altro, il grande rischio di controllo e il problema di una gestione democratica di questa centralizzazione. Chi informa e su cosa? Quando? E cosa succede, se come in passaggi storici anche recenti, nella nostra organizzazione convivono ipotesi, pratiche, proposte diverse su un’iniziativa, un corteo, una situazione? (abbiamo parlato prima di Genova 2001, ma pensiamo ai referendum sulla scuola del 2016 o agli scioperi di FFF di qualche anno fa). Su questo, appunto, c’è da fare tutta una discussione che dobbiamo aprire.

Chiudo. Un’ultima cosa sulle seconde e terze generazioni di immigrati. Anche qui, ringrazio Alessandro di aver posto la questione. Il sindacato italiano, noi, abbiamo avuto una funzione straordinaria e determinante negli anni Novanta in questo paese. In tutti i posti di lavoro abbiamo accolto, supportato, organizzato gli operai e le operaie migranti nel paese. Anche a Bergamo o a Treviso, abbiamo fatto in modo che nelle aziende e nelle fabbriche i lavoratori e le lavoratrici migranti fossero percepiti/e soprattutto come lavoratori e lavoratrici. Abbiamo costruito coesione sociale e identità generale del lavoro anche dove i nostri iscritti/e votavano Lega, siamo riusciti a portarli in sciopero davanti al collega migrante licenziato perché dentro la fabbrica lo percepivano soprattutto come un lavoratore o una lavoratrice, un loro compagno di lavoro e anche di lotta. Oggi siamo di fronte ad un altro passaggio cruciale. Nella storia di tutte le migrazioni, di tutti i processi di relazione interculturale, le seconde e le terze generazioni aumentano spesso la loro distanza dalla popolazione. Cresce, cioè, spesso intorno a loro una dinamica di ghettizzazione, cresce dentro di loro una dinamica di segregazione, perché si polarizzano e radicalizzano le identità. Cresce la rabbia e cresce anche la stratificazione sociale. Si sviluppano così processi di frantumazione sociale e dinamiche di rivolta, che assumono i contorni di alcune derive francesi che abbiamo visto negli ultimi decenni, in cui questa rabbia si sfoga senza produrre nessun reale cambiamento sociale. Allora sta a noi la capacità di sviluppare anche nelle seconde e nelle terze generazioni una rappresentanza e un’organizzazione generale del lavoro. Il problema, cioè, non lo risolviamo facendo imparare le lingue ai nostri funzionari (aiuta, ma non risolve): lo affrontiamo se creiamo spazi, momenti, delegati e delegati di queste nuove generazioni migranti dentro la CGIL, sviluppando autorganizzazione e strutture in cui possano esprimere i propri interessi, i propri punti di vista, le proprie esperienze, riuscendo a collegarle e unificarle con quelle del resto del lavoro.

Grazie.

Luca Scacchi